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#amisuradibici: Feltri, il traffico e le colpe dei ciclisti

Articolo. Recentemente il consigliere regionale Vittorio Feltri ha espresso avversione nei confronti dei ciclisti e delle piste ciclabili usando parole molto violente. Ma davvero le due ruote rappresentano un problema per la sicurezza e la mobilità urbana?

Lettura 6 min.

Mercoledì 25 settembre, nel corso dell’evento promosso dal Giornale «La grande Milano. Dimensione Smart City» il giornalista, nonché consigliere regionale, Vittorio Feltri ha detto: «a Milano quello che mi dà fastidio sono le piste ciclabili, i ciclisti mi piacciono solo quando vengono investiti». Le parole hanno provocato l’insurrezione di migliaia di cittadini e di decine di associazioni impegnate nella promozione della bicicletta e della sicurezza stradale. Organizzazioni come l’Associazione sostenitori della Polizia stradale (Asaps) l’Associazione Corridori Ciclisti Professionisti Italiani (Accpi), la Federazione Italiana Ambiente e Biciclette (Fiab), Legambiente e l’Associazione Italiana Familiari Vittime della Strada (Aifvs), solo per citarne alcune, hanno infatti espresso la loro indignazione.

Le sue affermazioni sono offensive di tutti i ciclisti morti investiti e delle loro famiglie, ma soprattutto, colpevolizzano le vittime di un sistema, il traffico, che dalla politica, che Feltri rappresenta, dovrebbe essere tutelate. L’unico merito di questa spiacevole vicenda è quella di offrire l’occasione per porre qualche riflessione sul ruolo e la responsabilità dei diversi mezzi di trasporto e sulla narrazione che ne viene fatta.

Il dominio dell’auto

Ci sembra ovvio che le strade siano dei luoghi destinati al transito delle auto, ma fino a metà del secolo scorso erano occupate prevalentemente da pedoni, biciclette, cavalli e carretti. L’automobile iniziò a guadagnarsi spazio agli inizi del Novecento, alimentata dal mito della velocità e della modernità. Tuttavia, il suo impatto era più culturale che reale, poiché non era competitiva con il trasporto pubblico e le biciclette in termini di costi e tempi. In quel periodo, con un tasso di motorizzazione di solo 2 auto ogni 1000 persone (oggi siamo a 682 su 1000), l’auto era un lusso accessibile solo a pochi privilegiati.

Questa situazione, tuttavia, fu sufficiente per far perdere alla bicicletta la sua aura di modernità e libertà, relegandola a un’immagine di mezzo popolare e modesto. Negli anni Sessanta, complice il boom economico e l’entrata sul mercato di vetture accessibili anche al ceto medio, l’automobile divenne egemone anche numericamente, appropriandosi delle strade e delle piazze di tutta Italia. Gradualmente e naturalmente l’auto si diffuse così tanto che divenne padrona incontrastata delle strade, mentre il trasporto pubblico veniva depotenziato, le linee ferroviarie dismesse e gli altri mezzi marginalizzati.

L’auto ha rappresentato e continua a rappresentare per milioni di italiani il simbolo della rinascita di un paese, l’espressione di riscatto sociale, l’idea di libertà e di attestazione del successo personale. Da questa visione nasce la convinzione, esternata da Feltri e condivisa da molti, che le auto debbano poter girare dappertutto, incontrastate, e che gli altri mezzi siano solamente degli elementi di intralcio.

A bordo della propria vettura si vorrebbe arrivare in centro città parcheggiando davanti all’ufficio, al negozio, alla scuola dei figli, al parco giochi, al cinema e ovviamente sotto casa. Insomma, si vorrebbe essere liberi di guidare come, dove e quando meglio si crede. Nei fatti, questo si traduce con il lasciare l’auto in doppia fila perché tanto «vado al tabaccaio due minuti e poi la sposto», con occupare piste ciclabili, marciapiedi e attraversamenti perché tanto «che sarà mai, lo fanno tutti», col pretendere di arrivare sino al cancello della scuola perché «devo prendere mio figlio» e ancora, col fare il filo ai ciclisti perché «volevate le ciclabili? ora usatele!».

Secondo questo pensiero, le piste e le corsie ciclabili, e in generale le biciclette, non rappresenterebbero nient’altro che una riduzione della libertà personale. Questa gente, animata spesso da un certo livore nei confronti di chi semplicemente decide di non spostarsi sulle quattro ruote, ha una visione di libertà pro domo propria e basta: ma lo stesso ragionamento potrebbe essere applicato al contrario. Un autista che parcheggia su un marciapiede o una pista ciclabile non ostacola pedoni e ciclisti? E che dire delle colonne di auto che intasano le strade? Il loro ingombro non limita forse la libertà di movimento? Insomma, si è arrivati a colpevolizzare la componente minoritaria e più debole della strada attribuendogli responsabilità che, come vedremo di seguito, non ha.

I ciclisti sono pericolosi?

Una prima accusa, piuttosto diffusa, è quella di ritenere le biciclette pericolose per la circolazione. Secondo un sondaggio condotto da IPSOS nel 2022 il 70% dei cittadini sostiene che i ciclisti rappresentino un pericolo tanto per i pedoni quanto per le automobili e le moto. Basta guardare qualche dato per constatare che questa tesi non ha nessun fondamento. Secondo i dati ISTAT l’anno scorso, in Italia, ci sono stati 3.039 incidenti stradali che hanno provocato la morte di 485 pedoni (16%), 212 ciclisti (7%), 802 motociclisti (26.4%), 1.332 automobilisti (43.8%), 112 conduttori di mezzi pesanti (4.6%) e 75 utenti di altri mezzi (2.2%).

I ciclisti sono morti principalmente per collisione con auto o mezzi pesanti (75.5%), da soli (13.2%) o in collisione con moto (5.2%) e similmente i motociclisti: il 60.8% contro auto, il 33% da solo e il 4.7% contro altre moto. Analogamente i pedoni sono morti contro le auto (89%), le moto (7.6%) e, in piccola parte, contro le bici (1.2%). Al contrario gli utenti dell’automobile (autisti o passeggeri) sono morti nell’impatto con altre auto o mezzi pesanti (55.4%) o da sole (42.3%), in nessun caso contro ciclisti o pedoni (ovviamente). In sintesi, meno dello 0.5% delle morti totali vede l’utente scontrarsi con una bicicletta mentre tale percentuale sale al 63.5 in presenza di auto o mezzi pesanti (autocarri, camion, bus e tram). Insomma, ad essere pericolosa non è la bicicletta, è il mezzo a motore contro cui si schianta.

Uno studio condotto nel 2019 dal centro lombardo di governo e monitoraggio della sicurezza stradale (CMRL) mostra risultati analoghi a scala regionale. Nell’83% dei casi in cui il ciclista rimane coinvolto in un incidente mortale l’impatto avviene contro un’auto o un mezzo pesante mentre tale percentuale raggiunge l’89.8% nel caso di ciclisti feriti. Sempre secondo le analisi del CMRL e del Politecnico di Milano condotte sulla Lombardia e Milano solo in un quarto dei casi la responsabilità dell’incidente è da attribuirsi alla scorretta condotta del ciclista. Questo a riprova del fatto che la bicicletta non costituisce, nella maggior parte dei casi, una fonte di pericolo per gli altri utenti della strada.

Le ciclabili aumentano il traffico?

Anche dopo le numerose proteste, Feltri non ha mostrato alcun pentimento ma ha rincarato la dose dicendo: «Basta prendere come esempio corso Buenos Aires. È impossibile circolare a causa delle piste ciclabili. Non si può bloccare la città per favorire chi va in bicicletta». Questa affermazione costituisce un altro dei pregiudizi più diffusi, ovvero che le piste ciclabili aumentino il traffico in città: se non fosse ridicolo, sarebbe anche divertente. A Milano attualmente circolano ben 993 mila auto, il record storico, e le piste ciclabili di Corso Buenos Aires sarebbero la causa del traffico? Basta osservare i monitoraggi del Comune per rendersi conto del contrario: in corso Buenos Aires con la realizzazione della pista ciclabile le auto sono diminuite del 17% in tre anni mentre la mobilità ciclistica è quadruplicata.

Comunque, anche tralasciando casi specifici, si intuisce che il traffico urbano è causato dalle autovetture: non si vedono mai ingorghi di pedoni, biciclette e moto perché questi mezzi occupano poco spazio. Il vero problema dell’intasamento a Milano, Bergamo e in tutta Italia è dato dal sistema automobilistico, non certo da ciclabili, semafori, cantieri o maltempo ed è paradossale che chi contribuisce a congestionare le strade sia il primo a lamentarsi addossando la colpa agli altri.

D’altronde non è difficile capire che l’unico modo per migliorare la circolazione sia quello di diminuire il numero totale di vetture spostando una buona fetta di persone dall’abitacolo delle auto al sedile della bicicletta o del bus. Basta guardarsi un po’ intorno: Amsterdam, Copenaghen, Stoccolma, Parigi, Anversa, Utrecht, Malmo, Strasburgo, Oslo, Bordeaux, Vienna, Monaco, Helsinki, Brema, Barcellona, Siviglia, Valencia, Vancouver, Amburgo, Montréal, Tokio, Lubiana: sono tutti imbecilli all’estero? In queste città, così come in molte altre, la mobilità delle persone è migliorata , e insieme la qualità di vita, grazie alla limitazione delle auto e all’incentivazione della bici e del trasporto pubblico: potremmo fidarci nel considerare questa la strada giusta da seguire.

Le piste ciclabili causano tragedie?

Ai microfoni del Giornale Radio Feltri ha poi precisato: «Io detesto le piste ciclabili, perché hanno strozzato il traffico di Milano. Pertanto, quando un ciclista viene travolto e ucciso, non è che sono contento come mi hanno attribuito». E ancora «Spero solo che il Comune, davanti a queste tragedie, si decida a togliere le piste ciclabili che hanno portato solo seri guai alla circolazione». Questa è una variante leggermente diversa della versione precedente: le ciclabili oltre a bloccare la circolazione sarebbero causa di tragedie.

Non è così, negli ultimi anni le piste ciclabili sono aumentate in tutt’Italia e così è avvenuto per la circolazione delle bici, anche se non con lo stesso ritmo. Ad esempio si stima che a Milano attualmente circa il 10% degli spostamenti avvenga sulle due ruote, era il 6% nel 2011; a Bergamo città invece, secondo un sondaggio dell’Eco di Bergamo e di ATB gli spostamenti a pedali sono aumentati del 38% tra il pre e post pandemia. Contestualmente l’incidentalità e in particolar modo la mortalità stradale è diminuita in tutta Lombardia , anche quella che riguarda i ciclisti. Dunque se mai le piste hanno contribuito a diminuire le tragedie, non il contrario.

Critiche alle bike lanes si sono levate anche a Bergamo, dal sindacato Fit-Cisl e dall’ex candidato sindaco Andrea Pezzotta, ma anche in questo caso l’accusa di pericolosità non è fondata perché, come ha fatto notare la sindaca Carnevali , il numero di incidenti gravi o mortali non è aumentato da quando sono state realizzate le corsie emergenziali.

Come si è visto l’ampia avversione nei confronti dei ciclisti e delle piste ciclabili è del tutto ingiustificata. Sicuramente ci sono ciclisti che non rispettano il codice della strada e piste ciclabili poco funzionali, ma i dati evidenziano che il loro impatto sulla mobilità e la sicurezza stradale è minimo. Colpevolizzare i ciclisti del traffico urbano è una forma violenta di difesa dello status quo che ostacola i processi di cambiamento in corso. Più tardi ci decideremo a imboccare la strada già intrapresa da molte città Europee e non solo, più alto sarà il numero di vittime e i costi sociali economici e ambientali che dovremo sostenere; è bene saperlo, soprattutto se si siede in consiglio.

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