A Palermo, in via Emanuele Notarbartolo, c’è un albero di Ficus macrophylla gigante, fuori misura, che quasi si fa beffe degli alti edifici residenziali che lo circondano. Avvicinandosi, si nota che il tronco è completamente coperto di dediche, foto, fiori e bandiere colorate. Se si prova a leggere cosa c’è scritto sopra alcune di esse, ci si può commuovere di fronte alla lettera di una bambina che inizia con «Caro Giovanni, le maestre mi hanno parlato tanto di te…», o notare tra gli altri un semplice foglietto di carta con scritto «Un doveroso omaggio a due eroi del nostro tempo».
Se si è fortunati, si può incontrare il portinaio del palazzo di fronte, che sarà ben lieto di raccontare la storia che quell’albero, come un silenzioso monumento, racconta da oltre trent’anni: quella di Giovanni Falcone, il magistrato simbolo della lotta alla mafia che proprio lì abitava. Dopo la sua morte nella strage di Capaci del 23 maggio 1992, ci furono proteste contro le mafie. I cittadini si servirono di quello che oggi è noto come l’“Albero di Falcone” per lasciare messaggi d’amore e di protesta, al grido di «Non li avete uccisi: le loro idee camminano sulle nostre gambe». Ancora oggi l’albero è un simbolo di speranza e coraggio: il neurobiologo vegetale e divulgatore Stefano Mancuso racconta la sua storia nel podcast «Di sana pianta», insieme a tanti altri aneddoti, studi e storie che si propongono di cambiare il modo in cui guardiamo al regno vegetale.
Un proposito che condivide anche una mostra inaugurata lo scorso 13 giugno all’Orto Botanico di Bergamo e visitabile fino al 30 settembre: «Alberi! 30 Frammenti di Storia d’Italia». La mostra, a cura della paesaggista Annalisa Metta, dell’arboricoltore Giovanni Morelli e del divulgatore Daniele Zovi, impreziosita dai disegni dell’illustratore Guido Scarabottolo e prodotta da M9 – Museo del ’900 di Venezia Mestre, si propone di mostrare e far sperimentare in prima persona ai visitatori la storia d’Italia, così come viene raccontata dai suoi alberi.
Gli alberi sono i protagonisti di questa esposizione, quali testimoni silenziosi dei frammenti che compongono il mosaico della storia d’Italia, recente e passata. «Alberi!» si compone di 30 tavole originali realizzate appositamente per la mostra da Guido Scarabottolo, uno dei più noti illustratori italiani, e di 30 storie inedite.
Lungo le trenta tappe del percorso ci si trova di fronte alla grandiosa presenza di alberi monumentali e grandi patriarchi che popolano le colline e le montagne d’Italia da secoli e a volte anche da millenni. Si leggono le loro storie, ci si emoziona di fronte ai racconti di alberi che non vogliono saperne di morire e altri che non germoglieranno mai, rimanendo per sempre uguali al momento in cui sono usciti non dalla terra, ma da una catena di montaggio. Dallo smisurato Ficus di Palermo (ancora più grande dell’Albero di Falcone, se si conta la circonferenza di oltre 20 metri alla base del suo tronco, il diametro della chioma di 50 metri e i 30 metri di altezza) all’unica sequoia sopravvissuta all’onda del crollo della diga del Vajont, fino all’Albero Finto Botanicamente Corretto.
«Gli alberi monumentali sono... solo alberi» afferma provocatoriamente Giovanni Morelli, arboricoltore, tra i nomi dietro la mostra, «ma le vite di questi esemplari finiscono per contenere quelle di molti uomini, espressione ultima della convivenza di lungo periodo tra ogni albero monumentale e la comunità che lo ospita. Così, al di là del suo indiscutibile fascino biologico, l’albero monumentale è tale quando cessa di essere un albero per diventare l’albero, facendosi simbolo, narrazione e testimonianza. Non può esistere albero monumentale senza memoria, senza narrazione, e senza contesto».
Secondo Gabriele Rinaldi, direttore dell’Orto Botanico, di questo contesto facciamo parte anche noi esseri umani, anche se spesso ce ne dimentichiamo. Ecco che allora «Alberi!» diventa un’occasione importante per «parlare di individui arborei, di presenze che arricchiscono i nostri habitat e le nostre vite, di coesistenze tra campioni di longevità e abitudinari della frenesia quali siamo noi. Tra disegni e narrazioni siamo invitati a nuovi sguardi, alla meraviglia, ma anche al risveglio dal torpore che ci fa apparire normale un albero di plastica».
Per Serena Bertolucci, Direttrice di M9 – Museo del ‘900, l’importanza di questa mostra trascende il valore artistico e permea un contesto culturale che necessita di un incoraggiamento nella giusta direzione: «“Alberi! ci ricorda che la nostra vita quale esperienza collettiva, di comunità, è contenuta, riflessa e raccontata dalla natura che ci circonda, un motivo che ci spinge ancora di più a preservarla con cura».
Un albero che sembra aver deciso di preservarsi da solo, ricorrendo perfino – dicono gli abitanti della zona – a un sortilegio, è tra i protagonisti della mostra: si tratta dell’Acero di Monte Tranquillo, che ha dimora nel Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, in una valle «coperta di boschi di faggio maestosi per imponenza e affascinanti per vecchiaia» (così la descrive il divulgatore Daniele Zovi narrandone la storia).
L’Acero di Monte Tranquillo è uno degli aceri più grandi d’Italia: quasi 7 metri di circonferenza, 30 di altezza e 450 anni di età. Talmente imponente che i boscaioli incaricati di abbatterlo nel 1960 deposero le accette e si rifiutarono di eseguire l’ordine. La sua storia si intreccia con quella della banda Cedrone, in aperta ribellione contro l’esercito piemontese, che per dieci anni si nascose in una grotta nelle vicinanze.
Il sortilegio che, secondo la leggenda, protegge questo albero maestoso (noto dai locali come “l’Acera”) è legato proprio a loro. «I briganti – racconta Zovi – fecero un patto con il diavolo: avrebbero nascosto un tesoro frutto delle loro rapine sotto il terreno nella cavità dell’acero e Satana lo avrebbe custodito. In cambio loro gli avrebbero sacrificato un neonato, sgozzandolo sopra il terreno che copriva il tesoro. Da allora, il diavolo ha sempre mantenuto il patto di sangue stipulato, e ogni volta che qualcuno si azzarda a tentare di trafugare il tesoro, all’improvviso attorno all’Acera si scatena una tempesta di vento, pioggia e fulmini che mette in fuga gli incauti».
Suscita meno timore (ma sicuramente reverenza) l’Araucaria di Villa Gropallo a Nervi (Genova), alla cui ombra passeggiava – si narra – Gabriele D’Annunzio in compagnia di Eleonora Duse. Siamo nel parco di Villa Gropallo, dove svetta «un campanile verde di 28 metri di altezza e 6 di circonferenza», originario del Queensland che, insieme a pini marittimi, ulivi e oleandri, compone «una tavolozza di tutti i verdi del mondo, delimitati dal verde chiaro dei grandi prati degradanti verso l’azzurro intenso del mare».
I nativi del Bunya Mountains National Park, che ospita interi boschi di araucaria, chiamano sia la pianta che il suo frutto «bunya-bunya». Il frutto è costituito da coni globosi di 30 centimetri di lunghezza che arrivano a pesare 10 chili, motivo per cui, se si visita la zona, come riporta Zovi, si viene avvisati di non attardarsi sotto questi alberi, proprio per la pericolosità incombente di questi proiettili che possono cadere dall’alto in qualunque momento. L’avvertimento non tange minimamente, invece, le frotte di pappagallini che ogni anno fanno visita all’Araucaria di Villa Gropallo, facendola in un certo senso sentire a casa.
Queste sono solo due delle storie raccontate dalla mostra «Alberi! 30 Frammenti di Storia d’Italia». Le altre vi aspettano fino al 30 settembre alla Sala Viscontea dell’Orto Botanico in Piazza Cittadella (Città Alta), tutti i sabati dalle 15 alle 18 e le domeniche e i festivi dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 18. Un’occasione unica per addentrarsi in una storia diversa, parallela alla nostra, e rendersi conto che di quella storia, in realtà, facciamo parte anche noi.