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Sumaya Abdel Qader: la convivenza tra culture si gioca nella gestione degli spazi urbani

Intervista. La sociologa e scrittrice sarà protagonista il prossimo 23 marzo, insieme a Shilpa Bertuletti (indologa e danzatrice) di un incontro per la rassegna «Molte fedi sotto lo stesso cielo», in cui discuteranno di cosa significhi progettare città interculturali e interreligiose.

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In molte metropoli europee, circa un terzo della popolazione proviene da contesti migratori, un fenomeno che sta gradualmente interessando anche le nostre realtà locali. Tuttavia, la convivenza in questa pluralità rimane una sfida, che si gioca soprattutto nella gestione degli spazi urbani e nella percezione che abbiamo della cittadinanza.

Non basta convivere accanto agli altri, è necessario costruire insieme, creando ambienti dove ogni individuo possa sentirsi veramente parte della comunità, senza sentirsi escluso. In questo contesto, la cittadinanza deve evolversi, abbracciando una visione che non si limiti a definire chi ha diritti e doveri, ma che riconosca anche la ricchezza delle nostre differenze e delle nostre identità uniche.

Lo sa bene Fairùz, l’adolescente protagonista del primo romanzo per ragazzi di Sumaya Abdel Qader . Vivendo con la sua famiglia in un quartiere multiculturale di Milano, Fairuz rappresenta il punto di vista di una giovane che si affaccia al mondo con curiosità e tante domande.

Attraverso i suoi occhi, Sumaya ci invita a riflettere sulle sfide e le opportunità che la multiculturalità ci offre. E lo fa con l’intensità di una prospettiva giovane e urgente, quella di una ragazza che si interroga su chi è, su cosa significa essere italiana e avere origini arabe, e su come possa conciliare queste due identità senza dover rinunciare a nessuna delle due. L’abbiamo intervistata.

CP: Nel tuo libro «In cerca di me», parli del desiderio di essere sé stessi senza paura di essere giudicati. Che cosa ha significato per te, personalmente, arrivare a quel punto di accettazione? C’è stato un momento preciso nella tua vita in cui hai sentito di essere davvero te stessa?

SQA: Capire chi siamo è sempre un lavoro in continuo divenire, un lavoro che si evolve nel tempo, perché noi stessi cambiamo. Cerchiamo costantemente un nuovo “noi”, un nuovo modo di essere, che si trasforma continuamente. Per me, ogni tappa della mia vita è stata un passo in avanti verso la conoscenza di un pezzo di me stessa. È stata una continua ricerca di chi sono e, soprattutto, di chi posso essere. Non è stato facile, perché il giudizio e i pregiudizi degli altri hanno pesato molto. Però, posso dire che c’è stato un passaggio che mi ha dato serenità nella mia identità plurale: quando sono diventata consigliera comunale a Milano. È stato un periodo in cui ho vissuto una feroce critica politica e un’aggressione razzista, ma lì ho capito quanto fosse importante battersi per ciò che si è, non solo per se stessi, ma per tutte le persone che rappresento nel sostenere l’importanza della diversità e della pluralità.

CP: Quando parli di razzismo, a cosa ti riferisci esattamente?

SAQ: Quando sono stata eletta consigliera (dal 2016 al 2021 nel comune di Milano, ndr), durante la campagna elettorale, è stato un vero calvario. Ho subito una lunga e dolorosa campagna di insulti legata al fatto che porto il velo, che sono musulmana, che sono di origine straniera. È stato un percorso che ha richiesto un esercizio di pazienza nei confronti di chi considerava scomoda la mia presenza. Questo tipo di razzismo non nasce dall’odio verso il diverso, ma dalla paura e dalla non conoscenza. Si basa sul pregiudizio: si pensa che una persona, solo perché proviene da un certo paese, appartenga a una certa religione, debba essere in un certo modo. E di conseguenza, si reagisce in modo difensivo, attaccando. È un razzismo che non è necessariamente odio verso l’altro, ma una difesa spesso irrazionale che si esprime anche con la violenza, talvolta. Per superarlo, bisogna educare alla pluralità e alle differenze. Siamo ancora lontani, ma è fondamentale continuare su questa strada.

CP: Credo che tu rappresenti l’emblema di cosa significa diversità, riuscendo a esprimerla in modo semplice e accessibile, senza essere superficiale e lo fai anche in questo romanzo dove assumi il punto di vista di una ragazzina all’interno di un contesto familiare multiculturale. Perché questa scelta?

SAQ: Potevo scrivere saggi e monografie, trattare la complessità in modo analitico, ma questi sono destinati a pochi. Io, non volevo parlare il “complicatese”, voglio parlare a tutti: dal bambino alla persona più anziana, con un linguaggio che fosse accessibile e non esclusivo. Volevo raccontare la complessità della vita in modo che tutti potessero comprenderla, senza sentirsi esclusi.

CP: La tua visione della città interculturale è molto orientata alla connessione tra le persone. Nel 2020 ti chiesi cosa pensavi dell’integrazione e tu mi dicesti che è una parola abusata. Oggi ti chiedo: cosa pensi che sia più difficile realizzare, l’integrazione tra culture diverse o la costruzione di ponti tra di esse?

SAQ: L’interazione è la chiave. È fondamentale far incontrare le persone, farle interagire e costruire insieme. Questa è la sfida più grande. Significa anche prendere coscienza del fatto che tutti viviamo lo stesso quartiere, la stessa città, gli stessi spazi, che sono un bene comune e vanno tutelati, curati tutti insieme. È una sfida che richiede sensibilità, anche verso le persone con disabilità, o quelle che hanno altre necessità. E tutto ciò avviene attraverso la conoscenza reciproca.

CP: Quando guardi al futuro, quale tipo di mondo speri che i tuoi figli o i giovani di oggi possano vivere? Cosa ti spinge a sperare ancora in un cambiamento positivo, nonostante le difficoltà che hai raccontato e che vivi ogni giorno?

SAQ: Più che speranza, credo che tutti dovremmo sentire il dovere di lasciare a chi viene dopo di noi un mondo migliore. Un mondo con più strumenti, spazi abitabili, benessere, non solo economico, ma a 360 gradi. Io mi batto per questo. Non solo lo spero, ma penso che dobbiamo lavorare per realizzarlo. In tempi difficili come questi, che sembrano riportarci indietro, è importante ricordare che abbiamo sviluppato una sorta di “immunità”, degli “anticorpi” che ci permetteranno di superare anche questo periodo. Credo molto nei giovani, nella loro capacità di capire la sensibilità degli altri e di vivere in un mondo pluralista.

CP: Quale ruolo ha avuto la tua famiglia nel formarti, sia quella di origine che quella che hai costruito con tuo marito, sia come persona che come professionista? Ci sono valori che ti sono stati trasmessi e che porti con te nella tua carriera e nel tuo ruolo di portavoce, se permetti, di tanti?

SQA: La mia famiglia, in particolare i miei genitori, è stata fondamentale. Mio padre, in particolare, è stato un medico e un Imam molto stimato a Perugia, uno dei primi pionieri del dialogo interreligioso in Italia. Ho respirato pluralità fin da piccola. Mio padre è morto nel periodo del Covid, ha avuto una cerimonia di funerale che ha visto la partecipazione di un sindaco di destra, di un cardinale, il Cardinal Bassetti, che ha pregato per lui durante la funzione e di un Imam. È stato un momento simbolico di unione tra religioni e culture diverse, che ha lasciato un segno profondo in me. La pluralità e l’accoglienza sono i valori che mi ha trasmesso.

CP: Ti capita mai di rileggere i tuoi scritti e chiederti quanto di te c’è in essi?

SAQ: Quando scrivo, mi ispiro alla mia vita, ma non solo. Ho avuto tante esperienze e incontrato molte persone lungo il mio cammino. I personaggi che descrivo, come quelli del mio libro, sono ispirati a persone reali, ragazzi e ragazze con cui ho parlato e che mi hanno raccontato le loro storie. La vita offre già tanti spunti per scrivere, non c’è bisogno di inventare nulla.
Nella vita reale, ad esempio ho tre figli, ma nel libro c’è un quarto personaggio che non è un “vero” quarto figlio. Non è un aggiustamento autobiografico, è semplicemente una scelta narrativa, nella scrittura ho voluto aggiungere una dimensione in più.

CP: Parli spesso del concetto di cittadinanza, che per te è sicuramente complesso. Riesci a immaginare una cittadinanza che non dipenda da categorie rigide, ma che permetta a tutti di essere partecipi della vita di una comunità?

SAQ: La cittadinanza non è solo il documento che ti permette di avere diritti, ma è anche la capacità di vivere da persone civili, con buon senso, e di curare gli spazi pubblici e privati. Un cittadino è colui che ha diritti, ma anche doveri, verso sé stesso, la sua famiglia, il prossimo e anche chi arriverà.

CP: Ti capita mai di sentire il peso di essere una voce per tante persone, per chi magari non ha la possibilità di farsi sentire? Come affronti questa responsabilità?

SQA: Mi chiedo ogni giorno se sto facendo abbastanza per gli altri, se sto facendo qualcosa di buono. Ogni giorno, prima di andare a dormire mi chiedo: cosa ho fatto oggi in più per aiutare qualcuno? Che sia anche una presa di consapevolezza o una semplice parola buona.

CP: A conclusione di questa intervista, ti chiedo, dunque, di lasciarci una parola buona.

SAQ: L’augurio che posso fare in questi tempi difficili è di non farsi ingannare dalla prima cosa che si sente, ma di cercare sempre la verità. La verità che non è edulcorata, non filtrata dalla propaganda, ciò che ci spinge a fare del bene per il prossimo. Questo è il mio augurio: cercare la giustizia e il bene per gli altri.

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