Ferruccio Graziotto e Adriana Lorenzi sono due che a un certo punto della loro vita hanno deciso di credere nelle parole. Credere nelle parole significa usarle per scrivere e ancora prima per raccontare, sperando che possano migliorare la vita delle persone.
Esistono infatti diversi tipi di scrittura e ognuna ha un valore differente: quella artistica, quella giornalistica, il diario, l’autobiografia e molte altre, fino alla lista della spesa, che è scrittura pure quella e molto utile. Poi c’è una scrittura difficile da definire, ma fondamentale. Una scrittura che non è letteratura ma della letteratura ha una piccola grande forza di medicamento, che non è autobiografia ma dell’autobiografia ha la capacità di isolare un momento e condividerlo. Una scrittura che a volte neanche si scrive, perché semplicemente si racconta – ma in fondo raccontare è un altro modo di scrivere: l’aria anziché il foglio, con lo stesso valore.
Ferruccio e Adriana questa cosa dello scrivere per medicare la conoscono bene e provano a metterla in pratica. Lui ordinando le parole in fila nel modo giusto per permettere che il lavoro di Adriana si avveri (un modo un po’antiburocratica per dire che il nostro si occupa di bandi di progetto, burocrazia di quella utile). Lei conducendo delle persone verso il racconto e la scrittura, compito non semplice che, almeno sentendola parlare, sembra una missione.
Il risultato di tutto questo è un laboratorio di scrittura per donne migranti, che spesso arrivano da noi in condizioni difficili dopo viaggi allucinanti, magari vittime della tratta da cui si sono liberate. Sono donne sovente giovanissime e si portano appresso un carico di dolore con cui fare i conti. Il laboratorio di scrittura è un momento di verità umana, senza obblighi e pretese, all’interno di un percorso verso l’integrazione e di un tentativo di riconquista di una dignità calpestata senza ritegno.
Le tre p di Ferruccio
Kairos e Agatha sono le due cooperative che si occupano di accoglienza con cui Ferruccio e Adriana collaborano per portare le donne migranti a raccontare e quindi in qualche modo a liberarsi. “Il nostro laboratorio di scrittura – racconta Ferruccio Graziotto – nasce da una risoluzione delle Nazioni Unite, che si è concretizzato in un decreto dello scorso governo. Questo decreto ci ha permesso di lavorare sulle storie personali di donne migranti che faticano a raccontare il loro vissuto”. Il laboratorio, finanziato proprio dal bando, nasce nel segno di tre p molto centrate: prevenzione, partecipazione e protezione.
Triangolando il significato di queste parole nasce il campo d’azione di Adriana Lorenzi, una vita alle prese con la scrittura come possibilità di curare, fra libri di vario tipo, esperienze con i carcerati, i tossicodipendenti e “un amore profondo verso la parte femminile dell’essere umano”.
Scambi di umanità
Il laboratorio, ci dice Adriana, funziona così: “Lavoriamo su temi come l’accoglienza, l’appartenenza, l’essere donna, il ricordo del proprio luogo d’origine o di persone importanti. Però ci occupiamo anche di argomenti non strettamente legati alla propria biografia”.
Le donne migranti spesso non parlano italiano e invece di scrivere narrano oralmente. Tuttavia al loro fianco ci sono delle educatrici che raccolgono i loro racconti in inglese. “Queste donne hanno vissuto spesso esperienze traumatiche, per cui parlarne è molto difficile. Scrivere, o anche solo raccontare, è il contesto giusto. Si crea uno spirito di condivisione che rende un po’ più leggere le loro vicende, almeno nel momento in cui vengono dette. Dopo certe esperienze di violenza o di prostituzione le ferite non si rimarginano mai del tutto, al massimo si cicatrizzano con il tempo”.
C’è uno scambio di umanità differenti fra migranti ed educatrici, e anche fra migranti e Adriana: “È un percorso molto rispettoso dei loro tempi, dei loro ritmi e della loro cultura. Cerchiamo di dare spazio alla libertà personale di ognuno. Anche le educatrici raccontano e quindi si crea un dialogo che porta queste ragazze ad aprirsi. A volte durante il racconto ci sono anche dei sorrisi, di serenità e gratitudine. Restano momenti positivi importanti”.
I racconti spesso non sono lunghi, ma sbocciano come frammenti di storie complesse e stratificate: “c’è un certo orgoglio da parte di ciascuna verso il proprio racconto. L’esperienza per certi versi ricorda nei paesi africani d’origine una donna anziana iniziava a raccontare le sue storie all’ombra di un albero”. Il risultato è di straordinaria intensità: “gli stati d’animo di questi racconti riguardano la nostalgia, la mancanza, lo sradicamento. Sentimenti non facili e molto coinvolgenti”.
Dai due laboratori svolti presso la cooperativa Kairos sono nati i testi che verranno rielaborati dalla scrittrice e regista Silvia Barbieri per la “Festa delle Luccicanze” dell’8 marzo, ultimo capitolo del progetto “Sei la Benvenuta”. In quell’occasione un gruppo di donne bergamasche racconterà queste storie all’insegna dell’accoglienza (se volete partecipare, potete seguire questo link), ma pure le storie di chi quotidianamente accoglie: educatrici, poliziotte, donne comuni. Una fotografia tutta al femminile di una questione non semplice eppure necessaria, che ha bisogno di soluzioni caratterizzate dalla solidarietà e dall’integrazione.
Le sette lampade di Adriana
Impossibile non chiedere ad Adriana come viva da donna queste esperienze dei laboratori. “Ho cominciato perché mi piaceva scrivere. Dopo due episodi di morte ho sentito il bisogno di uscire dal pozzo nero del dolore attraverso la scrittura. Ho seguito il metodo francese dell’atelier di scrittura, ho fatto i corsi, e ho iniziato con gli anziani che trasformavano la loro storia in un libretto da regalare. Poi in carcere dal 2002 e nelle scuole, nelle comunità psichiatriche, in quelle di tossicodipendenti. Ovunque mi accorgo che la scrittura aiuta a rielaborare, a riprendere i fili della propria vita. Il mio metodo si chiama le sette lampade della scrittura”.
In altre parole: “Quello che percepisco sempre è il piacere di condividere un pezzo di vita e riconoscersi nell’ascolto portato da chi si ha di fronte. Condividere la paura, lo spaesamento, il disagio, e insieme la voglia di mettersi in gioco e ascoltare le storie degli altri, un trovarsi reciprocamente per provare ad avere un’altra visione di ciò che ci è accaduto”.
C’è uno stato di empatia che è fondamentale nel fare questo lavoro: “quando guardi negli occhi queste donne capisci che vengono da lontano e si portano dietro la sofferenza per ciò che hanno subito, oltre al senso di fallimento dovuto a speranze che sono andate profondamente deluse. A tutta questa tristezza e paura cerco di rispondere con quello che sento, cioè una grande tenerezza, che è un modo per dare loro una dignità”.
Forse la parola chiave di tutta questa vicenda è proprio dignità. Non solo quella di chi ha subito, c’è anche la dignità di chi ha il dovere di accogliere, nonostante le difficoltà del confronto con culture diverse e gli ostacoli che tutti viviamo quotidianamente. Questa dignità però ci riguarda da vicino anche in un altro modo. L’esperienza dei laboratori di scrittura di Ferruccio e Adriana ci interroga sul nostro essere persone in questo tempo e soprattutto su ciò che forse ci stiamo perdendo. La capacità di raccontare, quella di ascoltare, quella di condividere. E la possibilità di credere di nuovo nelle parole. Le parole troppo spesso bistrattate, diventate false. Le parole che sono al contrario la prima sostanza dell’umano, occasione di una salvezza incompleta, ma essenziale.