Non è tanto l’impossibilità di abbattere il soffitto di cristallo, ma il rimanere ancorate al suolo appiccicoso delle pressioni sociali a impedire una soddisfacente partecipazione delle donne al mondo del lavoro. Ne è convinta Sabina Belli, Ceo di Pomellato dal 2015, una brillante carriera nel mondo del lusso, autrice del libro “D come Donna, C come CEO – Dizionario di Leadership al femminile” (ROI edizioni, 2018), i cui diritti vanno interamente a sostenere la Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate (Cadmi) di Milano. Grande sostenitrice dell’empowerment femminile, è – per usare un luogo comune – una donna che ha avuto tutto: carriera brillante, ma anche figlie e nipoti. Sarà una delle tante donne virtuose protagoniste della “Ballata per Sante, Streghe e Belle Dame”, l’iniziativa di Sesaab – L’Eco di Bergamo ed Eppen insieme – ideata e scritta da Silvia Barbieri e Daniela Taiocchi, per celebrare le donne virtuose di ieri e di oggi.
MM: Lei è una delle rarissime donne Ceo in Italia, e sostiene che non occorra essere un genio per farcela. Ma allora, cosa serve?
SB: Non servono capacità eccezionali o rarissime, ma doti indipendenti dal genere quali la leadership e la visione strategica. Ci si può interrogare sul perché le donne al vertice siano così poche, solo il 5%. Le performance scolastiche delle ragazze sono statisticamente migliori di quelle dei maschi, ma le cose cambiano con l’ingresso nel lavoro. Ad esempio in Italia abbiamo una percentuale di ritorno al lavoro bassissima dopo il congedo di maternità, ma sono “fatalità” contro le quali è possibile combattere con la volontà. Io cerco di battermi non solo perché sempre più donne possano sfondare il cosiddetto soffitto di cristallo, ma anche perché non rimangano impantanate nel pavimento appiccicoso dei “Non ho potuto”. In questo c’è tutto il peso della famiglia, delle pressioni sociali, di chi fa i conti in tasca e dice: “Spendi tutto il tuo stipendio in una baby sitter, non vale la pena”.
MM: Che consiglio darebbe a una giovane donna che volesse seguire le sue orme?
SB: Si è parlato a lungo di empowerment femminile, dicendo alle donne che possono farcela. Il mio messaggio è: ora che si può, fatelo. Non trovate delle scuse. Come dico spesso, anche se non è politicamente corretto: “Non esistono vittime innocenti”. Si possono trovare delle soluzioni, organizzarsi, accettare di vivere la maternità in modo non sacrificale. Io ho tre figlie, e credo non sia grave non essere a casa per vedere spuntare i dentini o assistere ai primi passi. Si può delegare senza drammi, ma guai a rinunciare alla propria indipendenza finanziaria.
MM: Quando si parla di femminicidio o – più in generale – di prevaricazione sulle donne si cita spesso la cultura, l’educazione. Ma c’è un aspetto molto più terra terra da prendere in considerazione: i soldi. Quanto conta l’indipendenza economica per essere libere?
SB: Per me una delle più grandi libertà della donna è quella finanziaria, il potere di soddisfare i propri bisogni senza passare da un uomo. Oltre alla violenza fisica, c’è la violenza verbale, psicologica ed economica. Solo il 46% di donne in Italia ha una sua carta di credito e un proprio conto in banca. È una forma di disparità anche all’interno di una famiglia felice, in caso contrario è un vero e proprio dramma. Molte donne rimangono in famiglie disfunzionali e in contesti di violenza perché non hanno scelta. Senza contare le donne che lavorano nella piccola impresa di famiglia senza essere assunte regolarmente, e per non parlare dell’aiuto domestico non retribuito.
MM: E, al contrario, guadagnare più del proprio partner è ancora un tabù per una donna?
SB: Enorme, soprattutto in Italia. Al ristorante capita che donne con maggiore potere economico diano la loro carta di credito all’uomo affinché sia comunque lui a fare il gesto di pagare.
MM: Spesso la famiglia viene vista come un ostacolo all’affermazione professionale di una donna, è possibile valorizzare questo lato privato e farne un punto di forza invece che di debolezza?
SB: La famiglia dovrebbe essere un luogo di solidarietà, non un impedimento a seguire i propri sogni e la propria individualità, in nome di una cultura ferma nel tempo. Detto ciò, ci sono aspetti del management che si possono applicare ai figli e viceversa. Ad esempio, nel modo di comunicare bisogna trasmettere idee e obiettivi con autorevolezza. Da madre, così come da manager, bisogna adottare la leadership necessaria per dare linee di condotta, anche a costo di non essere super simpatica o popolare, rinunciando al consenso globale.
MM: Quando lei ha iniziato la carriera, negli anni Ottanta, era veramente il mondo descritto dal film cult “Una donna in carriera” (“Working Girl” di Mike Nichols, 1988)? Le è mai capitato di essere sottovalutata, come Melanie Griffith, per rimanere nella metafora cinematografica?
SB: Quando sono diventata Ceo in Pomellato e mi hanno dato l’ufficio presidenziale mi sono rivista nella scena finale del film: Melanie Griffith non può credere che la poltrona del “capo” sia la sua e va a sedersi al posto della segretaria. Mi sono sentita un po’ come in “Working girl”: non è un film aneddotico, credo che seppure in forma di commedia racconti la realtà. A più di trent’anni dall’uscita al cinema, ci sono mondi dove le donne sono molto sottorappresentate, come il tech e la politica. Pensiamo anche alla figura dell’antagonista, Sigourney Weaver, che nel suo ruolo di manager algida e prevaricatrice racconta come le donne possono essere le peggiori nemiche delle altre donne.
MM: Ora le cose sono cambiate? È diverso l’approccio al femminile nel mondo del business, in particolare nei grandi marchi?
SB: Ci sono ancora barriere culturali molto radicate. L’altro giorno ho accompagnato mia madre per una vaccinazione in un ospedale milanese. Quando dall’ambulatorio è uscita una giovane ragazza molto graziosa e ha detto di essere lei il medico ho visto sguardi sgomenti nelle signore in fila. Per loro era obbligatoriamente un’infermiera. Fa parte della nostra cultura, anche io devo ammettere di essere rimasta sorpresa, per quanto contenta. A livello di cultura aziendale, sono stati fatti passi in avanti: ora tutti i cacciatori di teste propongono un numero uguale di uomini e donne, mentre una volta, per certe posizioni, erano suggeriti solo maschi. Poi ci sono realtà come il gruppo Kering (di cui fa parte Pomellato, Ndr) molto avanti nelle politiche sulla parità di genere e di sostegno al welfare. Per esempio da noi è previsto un congedo paternità di 14 settimane e il 74% dei lavoratori sono donne. Anche nel comitato esecutivo siamo in 4 donne e 2 uomini.
MM: Lei ha detto che l’uguaglianza fra uomini e donne è impossibile, per differenze biologiche e perché maschile e femminile sono due archetipi diversi. Si può dare una definizione di femminilità e di mascolinità non tossiche, non prescrittive, libere da stereotipi? Ci vuole provare?
SB: Non ho una risposta istituzionale da dare, ci sono diverse scuole di pensiero. Personalmente io ho la percezione che ci sia una evidenza biologica, a prescindere da qualsiasi tipo di preferenza si possa poi esprimere. Credo anche che ci siano caratteristiche più femminili e altre più maschili, lo osservo già nelle mie nipoti piccole. L’intuizione, la volontà di creare consenso e arrivare agli obiettivi con l’intelligenza collettiva sono caratteristiche più femminili. La modalità maschile è più individualista e orientata al potere. Io stessa ho ricevuto feedback sul mio conto in questo senso: mi è stato detto che gestisco la società in maniera diversa rispetto ai precedenti Ceo, in modo più empatico.
MM: Negli ultimi anni il femminismo è tornato alla ribalta, come un marchio sempre più “vendibile”. Crede ci sia una banalizzazione nell’enfatizzare questo “empowerment femminile” o lo vede con simpatia? E lei, si definirebbe femminista?
SB: Credo sia importante fare una distinzione fra il femminismo di oggi e quello degli anni ’70, quando si trattava di un’azione politica per avvicinarsi a una forma di uguaglianza fra i sessi. Significava lottare per ottenere dei risultati a carattere sociale e politico. Ora si parla di inclusività, parità e problematiche di genere, anche in chiave Lgbtqi+. È diminuita la dimensione politica e aumentata la dimensione sociale. Mi dispiace che il femminismo sia ancora legato a stereotipi caricaturali. Io mi ci riconosco, ma non sono troppo radicale. Non credo alle definizioni rigide o all’uso eccessivo del politically correct.