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Mismatch e lavoro, quando le competenze del lavoratore e il bisogno di un’impresa non corrispondono

Articolo. In Italia la percentuale della difficoltà di reperimento di personale da parte delle imprese è aumentata di ben 9 punti negli ultimi 4 anni. Un concorso di colpa fra scuola, università e aziende. “Che devono porre attenzione ai benchmark retributivi di mercato”, come spiega Silvia Zanella, esperta di una grande società di consulenza, il 12 novembre a Festival Città Impresa

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(foto Andrii Yalanskyi)

Ci risiamo. Il mismatch – letteralmente la “mancata corrispondenza” – formativo e delle competenze è nuovamente sulle pagine di cronaca e dei giornali di settore. Sembra quasi un rimosso freudiano che non lascia tregua all’inconscio, tornando ciclicamente a presentare il conto a chi si guarda bene dal prendere di petto i problemi che la realtà gli pone di fronte.

Il disallineamento tra quanto richiesto dalle imprese in termini di conoscenze, abilità e competenze e quanto invece offerto dai lavoratori, o potenziali tali, rappresenta ormai una costante che non può però essere additata a un solo responsabile. Secondo Silvia Zanella, esperta di una grande società di consulenzasi tratta infatti di un concorso di colpa che coinvolge le imprese e gli istituti formativi e che si riflette anche sulle singole persone, che spesso sono in difficoltà nel prepararsi adeguatamente per l’entrata nel mercato del lavoro”.

Da una parte, vi è quindi l’inerzia del mondo della scuola e dell’università a non voler adeguare il modello d’istruzione e formazione alle trasformazioni del mondo del lavoro e del mercato e, dall’altra, un’eccessiva pretenziosità delle imprese nel volere “tutto subito”, senza impegnarsi in un’analisi delle proprie necessità e nell’adozione dei giusti canali di ricerca per raggiungere i potenziali candidati.

Guardando ai dati Unioncamere-Anpal, Sistema Informativo Excelsior, 2020, la percentuale della difficoltà di reperimento da parte delle imprese in Italia è aumentata di ben 9 punti negli ultimi 4 anni, passando dal 21% nel 2017 fino ad arrivare al 30% nel 2020. Le ragioni alla base di questo elevato livello di incompatibilità, tra quanto richiesto dalle aziende e quanto invece presente sul lato dell’offerta, sono da rinvenire nella preparazione inadeguata o, addirittura, nella poca reperibilità di candidati.

Tra questi mancano all’appello in particolare figure specialistiche e tecniche ed operai specializzati. È quindi tra gli istituti di istruzione e formazione professionale che si verifica il mismatch più grande. In questi casi, l’offerta formativa è in grado di soddisfare solo il 50% della domanda potenziale, con situazioni critiche per gli indirizzi della meccanica, della logistica e dell’edilizia (si veda Previsione dei fabbisogni occupazionali e professionali in Italia a medio termine 2021-2025).

Dal canto loro le imprese devono riconoscere l’importanza per il proprio personale di prendere parte a percorsi di upskilling e reskilling professionale, adoperando anche strumenti come il Fondo Nuove Competenze per la progettazione di percorsi formativi a partire da un’analisi del proprio fabbisogno concordata dalle parti sociali d’azienda. Secondo studi recenti, l’Italia, nonostante un forte aumento della partecipazione degli adulti in percorsi di formazione (del 133% dal 2007 al 2016), rimane comunque indietro rispetto agli standard internazionali con solo il 20.1% della popolazione adulta che partecipa a percorsi di formazione continua contro una media del 40% negli altri paesi Ocse.

A dire di Zanella, c’è però anche un altro aspetto che impone di fare i conti con il cosiddetto talent shortage, ossia la mancanza di talenti e potenziali candidati che servono alle organizzazioni. “Le imprese devono porre attenzione ai benchmark retributivi di mercato e alle esigenze espresse dalle persone che vedono nella flessibilità dell’organizzare il proprio lavoro in autonomia un elemento imprescindibile”. Veri e propri ingredienti fondamentali per rendersi attrattivi nei confronti di quei pochi rimasti, acciuffandoli prima che fuggano all’estero.

Il problema del mismatch assume ancora più rilevanza se si ha chiaro il quadro complessivo dei fabbisogni delle imprese nel medio periodo e le sfide che il mondo del lavoro sta già iniziando ad affrontare sul piano demografico, digitale ed ambientale. Nei prossimi cinque anni, le indagini di Unioncamere stimano che il mondo produttivo e dei servizi, pubblico e privato, avrà bisogno di assumere un numero di nuovi lavoratori che oscilla tra 933 mila e 1 milione e 300 mila, la cosiddetta expansion demand. Ma non finisce qui. Una cifra ancora più alta, che si aggira intorno ai 2 milioni e 600 mila, è prevista per l’inserimento di persone che andranno a sostituire (replacement demand) la forza lavoro esistente per via di pensionamenti, prepensionamenti e cause naturali.

Scenari ancora imprevedibili in attesa degli esiti del confronto tra le parti sociali sulla riforma del sistema pensionistico in atto proprio in questi giorni (si veda qui per approfondire). Gestire la transizione demografica, che si riflette soprattutto nel ricambio dei lavoratori già esistenti, non significa operare soltanto una semplice sostituzione, ma dover gestire e progettare scambi di competenze e conoscenze tra chi esce e chi entra, facendo i conti con la trasformazione delle mansioni e delle attività per evitare un brusco contraccolpo e l’ampliarsi della forbice del mismatch.

Non rassicurano, sul fronte demografico, i dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro che mostrano come l’Italia sarà, dopo il Giappone, il paese con la forza lavoro con l’età mediana più elevate, che nel 2030 dovrebbe attestarsi intorno a 46,5 anni. Per essere chiari: il rischio di obsolescenza delle competenze e l’impoverimento del capitale umano è dietro l’angolo.

Nel caso della transizione digitale, vien da sé che, in particolare dopo la pandemia, le e-skills e le digital skills stiano diventando il pane quotidiano in sempre più attività e per sempre più profili professionali. Ma anche qui non mancano i problemi. L’Italia sembra essere poco preparata ad affrontare la grande trasformazione digitale già in atto, proprio a partire dai suoi cittadini.

I dati Eurostat ci dicono che la percentuale di individui in possesso almeno delle competenze digitali base nel nostro paese è appena del 42%. Ben distanti da Olanda (79%), Regno Unito (74%) e Germania (70%), ma anche da Spagna e Francia entrambe al 57%. È però l’ultima transizione a rappresentare una novità con la quale il mondo del lavoro e l’economia stanno prendendo le misure: quella ambientale. Sempre l’Organizzazione internazionale del lavoro ha confermato come vi sarà un impatto diretto e indiretto sul fronte occupazionale, portando alla creazione di 24 milioni di nuovi lavori e alla distruzione di altri 6 milioni. La posta in gioco è alta e per vincerla sarà importante valutare in anticipo quali competenze professionali saranno necessarie per accompagnare e accelerare il processo di transizione.

La difficoltà a reperire candidati con le giuste competenze è, infine, dovuta anche all’utilizzo dei canali di ricerca che vengono adottati dalle imprese. Come dimostrato dalle indagini Unioncamere-Anpal Excelsior informa, in Italia domina il passaparola e la conoscenza diretta candidato. “Questi mezzi – afferma Zanella – non sono necessariamente negativi nel momento in cui aiutano a verificare le referenze. Riducono però il potenziale competitivo e il bacino di candidati, cosa che è possibile ampliare grazie all’utilizzo delle tecnologie e degli strumenti digitali. Anche una piccola azienda deve quindi essere attenta all’utilizzo di questi canali”.

Tirando le somme, a fronte dell’elevata percentuale di giovani che non studiano e non lavoro (Neet), oggi in Italia al 23.3%, e dell’elevato tasso di disoccupazione giovanile fissa al 33,8%, l’ampio mismatch delle competenze rappresenta un dato ancora più grave. Siamo infatti costretti ad assistere ad una situazione in cui queste persone, invece di essere inserite in percorsi di sviluppo e apprendimento delle competenze che servono per colmare il gap, rimangono “parcheggiate” in attesa che la politica, o chi per lei, tiri fuori la bacchetta magica.

Occorre quindi rimboccarsi le maniche, incentivando un maggior dialogo tra istituti formativi e aziende, evitando che il loro rapporto si riduca a qualche esperienza di alternanza scuola-lavoro qua e là. Vanno quindi potenziati gli ITS (istituti tecnici superiori), già molto affermati in paesi come la Germania, oltre che l’apprendistato duale e tutte le altre forme di ibridazione tra mondo del lavoro e mondo della scuola e dell’università.

Non da ultimo, occorre impostare una cultura del lifelong learning nelle aziende attraverso la promozione di percorsi di formazione continua e la partecipazione ad academy aziendali (anche territoriali) che permettano alle imprese e ai territori di tenere costantemente il polso dei propri fabbisogni e creare dei canali privilegiati di incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro.
Roma non è stata costruita in tre giorni, il mismatch formativo e di competenze non scomparirà in un mese. Tuttavia, considerata anche l’entità del finanziamento del Pnrr, muovere questi primi passi ci aiuterà a dirigerci verso un sistema di istruzione e lavoro migliore, a favore delle persone.

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