Siamo istintivamente portati a credere che verbi e sostantivi per noi di uso comune (come essere, avere, natura) abbiano grossomodo dei corrispettivi lessicali in tutte le lingue e le società umane. Marcello Ghilardi, docente di Estetica all’Università di Padova e studioso delle sapienze filosofiche dell’Estremo Oriente, ci ricorda invece come molte idee e principi che a noi europei sembrerebbero scontati, comuni a tutte le civiltà, siano nati in particolari contesti e tradizioni di pensiero.
“Fino al XIX secolo – spiega Ghilardi – non esisteva nella lingua cinese un termine per esprimere il concetto della ‘libertà’, così come siamo abituati a concepirla in Occidente. In Cina si era affermata una diversa nozione di libertà, indicata dalla parola ziran, ‘naturalezza’: è l’atteggiamento che contraddistingue il saggio taoista, capace di conformare le sue condotte all’armonia cosmica del Tao. Nella lingua greca, invece, era presente il vocabolo eleutherìa, che inizialmente indicava la condizione giuridica di un ex schiavo una volta affrancato, o quella di un popolo non soggetto a una dominazione straniera: proprio questa nozione è stata poi ripresa e sviluppata dalla tradizione filosofica occidentale, che ha approfondito la questione della libertà soprattutto in una prospettiva politico-giuridica, con riferimento – per esempio – ai diritti umani”.
“È così successo – racconta ancora Ghilardi – che nella seconda metà dell’Ottocento alcuni intellettuali cinesi, dovendo tradurre l’inglese liberty, o freedom, facessero ricorso alla parola ziyou, scritta con due caratteri che insieme stanno per ‘sé indipendente’, ‘sé capace di autodeterminarsi’”.
“Esporsi alla libertà” è il titolo della videoconferenza di Ghilardi che trovate qui sotto, tratta dal XXVIII Corso di filosofia dell’associazione culturale Noesis (informazioni sulle modalità e i costi di iscrizione nel sito noesis-bg.it): “In questa relazione – egli spiega – non mi soffermo particolarmente su un’accezione politica delle libertà individuali e nemmeno sul tema del libero arbitrio, come facoltà che contraddistinguerebbe il soggetto umano. Anziché parlare della libertà come ‘qualcosa che noi avremmo o non avremmo’, vorrei fare un passo indietro, descrivendola come una condizione in cui noi originariamente ci troviamo; agire liberamente significa non tanto esercitare una facoltà, quanto aprirsi a una dimensione del reale che, in certo modo, ci precede, ci avvolge e chiede di essere riconosciuta. Nel buddhismo zen, per significare l’esperienza dell’illuminazione, si ricorre all’immagine della goccia di rugiada che, nella sua piccolezza, è però capace di riflettere la luce della luna o del cielo stellato. Come la goccia, l’uomo è un essere finito, limitato; tuttavia è in grado di accedere all’esperienza della libertà, e questo non negando la sua finitezza, ma proprio mediante essa”.
Guarda qui sotto l’intervento di Marcello Ghilardi: