Sono nata e cresciuta in provincia, con due genitori che, la domenica, anziché portarmi a Bergamo centro, preferivano un gelato e una passeggiata sul Lago di Iseo. Due le occasioni imprescindibili in cui si metteva piede in città: il primo sabato di dicembre, per portare la letterina a Santa Lucia, e il 17 gennaio, giorno di Sant’Antonio Abate. Ricordo le lunghe code in via Locatelli, lo sguardo perplesso che rivolgevo alla mamma quando insisteva perché facessimo benedire la Golf di famiglia. Poi la Messa, le bancarelle, i biligòcc. Ho scoperto col tempo che, quelle che credevo essere castagne normali servite da ambulanti urlanti, sono in realtà frutto di un lungo procedimento. Le castagne devono essere prima essiccate e affumicate, poi lessate in apposite pentole di rame.
Il culto di Sant’Antonio Abate – altra cosa che ho scoperto solo dopo anni – ha origini antichissime. Nato in Egitto intorno al 250, Antonio abbandonò ogni cosa all’età di vent’anni per condurre una vita eremitica. A diffonderne la storia e l’esempio fu un discepolo, Sant’Atanasio, che racconta nei suoi scritti come ad Antonio accorressero, attratti dalla sua fama di santità, pellegrini e bisognosi di tutto l’Oriente.
Le radici del culto
Nella nostra tradizione, Sant’Antonio Abate occupa un posto particolare. I frati antoniani, d’altronde, si insediarono a Bergamo già verso la fine del Trecento. In città, due gli hospitali fondati dedicati esplicitamente al santo: Sant’Antonio in foris, all’imbocco di Borgo Palazzo, e l’ospedale di Sant’Antonio detto ‘in prato’, che si trovava nell’area occupata dall’attuale Palazzo Frizzoni.
Per quanto, tuttavia, la figura di Antonio Abate sia disseminata nella cultura e nei luoghi bergamaschi fin dall’epoca medievale, la chiesa che oggi più lo ricorda, quella sita in Via Locatelli, non è intitolata a S. Antonio, ma a San Marco Evangelista. È Don Pietro Biaggi, parroco di Sant’Alessandro della Croce in Pignolo, a spiegarmene il motivo: “Deriva tutto dal rapporto della chiesa di S. Marco con l’ospedale di Sant’Antonio ‘in Prato’ e gli altri ospedaletti presenti in città”. A metà del ‘400, i veneziani unirono tutti gli undici ospizi bergamaschi in un Ospedale Grande. Naturalmente, quest’ultimo venne dedicato a San Marco evangelista, patrono di Venezia, ma avrebbe portato radicato in sé la devozione a Sant’Antonio che arrivava dai piccoli ospedali precedenti. Così la chiesa di San Marco, costruita nel perimetro dell’Ospedale, una chiesa dove “il culto di Sant’Antonio, affiancato a quella di Santa Rita in estate, ha surclassato la titolazione principale a San Marco evangelista”.
L’Ospedale San Marco oggi non c’è più, venne demolito e trasferito oltre la Conca d’Oro (negli anni ’30, raccontano delle belle pagine del Giopì, il giornale del Ducato di Piazza Pontida, i turisti stranieri che capitavano a Bergamo andavano a visitare quella che credevano una “zona di antichi scavi archeologici”).
Don Pietro si sente però di aggiungere una riflessione personale, in merito alla storia della Chiesa: “Pur non essendoci più l’Ospedale, è rimasta in San Marco secondo me la caratteristica della preghiera fiduciosa davanti alle preoccupazioni, alle malattie. La Chiesa ha conservato questa tipologia e l’ha unita a quella dell’adorazione eucaristica”.
Tradizioni di ieri e di oggi
Date un occhio alle immagini di Sant’Antonio che trovate nei libri o navigando su Internet. Il santo viene rappresentato spesso con un maiale ai piedi. “C’è una motivazione storica”, mi spiega Don Pietro. “In questi piccoli ospedali, non solo a Bergamo evidentemente, il maiale serviva per il sostentamento e la cura dei malati”. Ai tempi, il lardo dei maiali si utilizzava insieme a delle erbe officinali come rimedio alla malattia dell’ Herpes Zooster. Il termine non vi dice niente? Si tratta dell’altrimenti noto “Fuoco di Sant’Antonio”.
Tante sono le tradizioni che sono andate alimentandosi nella cultura popolare. Tra gli attributi iconografici legati alla figura del santo c’è spesso il fuoco, tanto è vero che in molte città, a metà gennaio, è tradizione accendere dei falò.
Poi, naturalmente c’è Antonio Abate come protettore degli animali. “Il tema del maiale si è ampliato”, racconta Don Pietro, “è passato a tutto ciò che aiuta la vita dell’uomo nel suo sostentamento: una società contadina, agricola come quella del secolo scorso, vedeva la benedizione di Antonio sulle stalle, sul lavoro dei campi, sulle mucche, sugli animali”.
Da cosa nasce cosa, come si dice, e dalla protezione del lavoro dei campi è derivata la benedizione dei mezzi agricoli, e poi ai carri si sono affiancate le macchine, le bici o le moto. Al tempo stesso, agli animali da cortile, quelli “che aiutano il sostentamento dell’uomo”, sono subentrati gli animali domestici. Don Pietro ha benedetto spesso cani, gatti, coniglietti. “Ci sono dei paesi della Bassa dove ancora si va nelle stalle per la benedizione o in alcuni paesi vengono portati i trattori” mi racconta. A Mariano di Dalmine, il 17 gennaio, sfilano spesso i cavalli.
“Ora, nel nostro contesto cittadino, il tema è sempre la protezione sulla propria vita e la vita delle famiglie. E se nelle famiglie sono presenti gli animali domestici, anche questa è una forma di benedizione di ciò che vive attorno alla famiglia”.
Mi sarebbe piaciuto vedere i calessi affollare il centro cittadino. Renato Ravanelli, in un libro pubblicato da Sesaab nel ’92 (“Bergamo Ieri & Oggi”) ricorda come quand’era bambino in via Locatelli “faceva freddo, il fiato dei cavalli creava un fumo denso”. C’è un altro aneddoto che ho amato leggere, quando ho tolto il volume di Ravanelli dallo scaffale polveroso della mia libreria. Dice così: “Ricordo una vecchietta che, alla tradizionale benedizione, portava ogni anno – erano ormai cinque o sei – una gallina, la stessa gallina. Ma quand’è che se la mangia?, le chiedeva il prete”.
Ammetto di aver riso parecchio, ma anche di essermi commossa quando Don Pietro mi ha descritto la benedizione dei passeggini dei bambini della scuola dell’infanzia delle Suore Orsoline che due anni fa hanno affollato San Marco. Chiedo al parroco quale sia il senso profondo della benedizione, che il giorno di Sant’Antonio Abate tocca anche il sale, quel “sale della terra” del Vangelo di Matteo senza cui nulla avrebbe più lo stesso sapore. Gli chiedo se non si cada, talvolta, nella superstizione.
“La benedizione tocca la persona” mi risponde. “Si parte da ciò che è esterno alla casa, da ciò che vive attorno all’uomo, quindi gli animali (agricoli e domestici) o il mezzo di trasporto che può essere la moto, l’auto o il passeggino, ma la benedizione va a toccare l’uomo perché alla fine è lì il cuore del gesto che viene fatto di fede. Non dimentichiamo che qualsiasi tradizione che ha una benedizione legata a degli oggetti vuole andare a toccare la fede delle persone”.
Una figura attuale
Di fatto, quello che più colpisce Don Pietro delle celebrazioni di Sant’Antonio Abate, non è tanto la folla di auto che riempie il centro cittadino, ma “vedere come tante persone arrivino fin dal mattino presto, pregano, accendono la loro candela… non è solo la benedizione delle macchine, ci sono molte persone che vengono e pregano in San Marco”. Ecco perché, anche questo 17 gennaio, accanto alla benedizione delle macchine, sono previste celebrazioni liturgiche, la possibilità delle Confessioni, il rosario e la preghiera.
Forse le strade, per via dell’emergenza pandemica ancora in corso, non saranno affollate come un tempo. E ancora non è chiaro se la tradizionale sagra dei biligòcc si svolgerà davanti a San Marco, sul Sentierone, oppure verrà rimandata a tempi migliori. La chiesa resta però aperta, ricorda Don Pietro, come è viva l’opportunità di conoscere “una figura ancora attualissima”.
“Più Sant’Antonio si allontanava, più lo ricorrevano: lui si spogliò di tutto, ma nello stesso tempo gli altri si accorsero di una ricchezza enorme, che è la ricchezza del suo rapporto con Dio. Parliamo di una figura che non fu lontana dal mondo, ma completamente radicata nel mondo” mi racconta il Parroco (e quanto le sue parole mi ricordano quelle di Suor Maria Teresa del Monastero di Santa Grata…). “Antonio affronta le tentazioni e ne esce vittorioso: ci insegna che con l’aiuto della grazia di Dio le tentazioni si possono affrontare. Insomma, diventa qualcuno che educa alla fede, un maestro spirituale, che è quello che la Chiesa cerca di fare anche a partire dalla festa del 17”.