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«Fine pena: ora». Ricostruire vite dove il reato le ha spezzate

Articolo. La persona è più del gesto che compie ed è dalla sua umanità che bisogna ripartire per riabilitarla, oltre a ricostruire la società dove il trauma o la violenza del reato l’ha spezzata. Parte da questa idea, dal riconoscere che l’umano c’è anche in un criminale, l’esperienza dell’ex giudice Elvio Fassone, che in un libro ripercorre 26 anni di corrispondenza tra lui e il detenuto che ha condannato all’ergastolo. Una relazione che va in scena a Torre de’ Roveri sabato 16 novembre nell’ambito del festival «Prossimi futuri» di Aeper.

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Una vita fuori, che non manca l’appuntamento con una vita dentro da 26 anni. Una corrispondenza lunga circa un terzo di una vita racchiusa in una serie di buste giallognole che viaggiano dal carcere, scritte a mano da Salvatore M., uno dei capi della mafia catanese processato a 27 anni e da Elvio Fassone il magistrato che l’ha condannato all’ergastolo, ma che poi è diventato il riferimento del detenuto nei suoi anni in carcere e che in lui ha visto non solo il reato, ma anche la persona e il suo diritto all’umanità. Un’umanità che attraversa le pagine di «Fine pena: ora», una raccolta di lettere tra i due, che il regista Simone Schinocca, fondatore e direttore artistico di Tedacà, ha portato in scena nei teatri italiani.

Lo spettacolo fa tappa anche in provincia con appuntamento al teatro parrocchiale di Torre de’ Roveri sabato 16 novembre alle 20.45 nell’ambito del festival diffuso di Aeper «Prossimi futuri». Un racconto che nasce da un’urgenza, quella di far conoscere la storia di Salvatore quando il giudice riceve la lettera in cui gli scrive di aver tentato il suicidio: dopo anni di detenzione, tra laboratori, studio e lavoro, il detenuto viene trasferito in un nuovo penitenziario e l’annullamento di tutto il suo percorso di riabilitazione lo getta nello sconforto. Un operatore penitenziario però riesce a salvarlo.

Il carcere che punisce anche le parti innocenti di noi

Anni prima, durante l’ultimo colloquio prima della detenzione, alla fine di un processo durato due anni, Salvatore aveva detto al giudice: «Se suo figlio nasceva dove sono nato io forse a quest’ora era lui nella gabbia e se io nascevo dove è nato suo figlio forse adesso io facevo l’avvocato ed ero pure bravo». Non c’è solo il criminale, ma anche la persona. Non c’è solo la persona, ma anche il suo ambiente. Questo è quello che riconosce Fassone in Salvatore. E da quel momento comincerà a scrivergli per parlare con quella parte innocente del condannato che ha visto. «Il carcere è per castigare certi gesti, ma poi punisce anche parti che la persona forse non sapeva di avere, parti innocenti, che magari si scoprono solo quando vengono ammutolite a forza, e recise - si legge nel libro - perché il carcere è pena per gesti che non andavano compiuti, ma la persona non è mai tutta in un gesto che compie, buono o cattivo che sia».

«Diversamente dal libro, che si ferma al tentato suicidio, lo spettacolo va oltre, andando a recuperare molti altri passaggi della vita di Salvatore, che comincia a raccontare della sua infanzia nelle lettere al giudice - spiega il regista Simone Schinocca - Fassone realizza che queste lettere sono ciò a cui il detenuto si aggrappa per rimanere in vita, il suo legame con il fuori e con l’umanità. Un’umanità che per il giudice va di pari passo con il diritto. Lui crede nella legge, non ha rinnegato l’ergastolo: davanti a reati efferati la società ha bisogno di segnali come quello, ma il sistema detentivo non deve negare mai la speranza».

Questo spettacolo secondo il regista interroga sull’oggi, sulle nostre vite e «ha la possibilità di aprire domande dove normalmente saremmo tutti trincerati dietro porte blindate. Il teatro ha la possibilità di essere una chiave per aprire queste porte, creando spiragli oltre le nostre difese».

La persona oltre il reato, tra riserve di umanità e desiderio di futuro

Tra le pagine del libro emerge chiaro come il giudice Fassone riesca a vedere in Salvatore anche un uomo, non solo un mostro. Uno sguardo che è quello da cui parte la giustizia riparativa, che è il passo successivo rispetto a dove si ferma il libro. Questo modello rappresenta una modalità di risoluzione del conflitto causato dal reato in cui persona offesa e colpevole si incontrano davanti a un mediatore neutrale per momenti di ascolto e dialogo, con l’obiettivo di ricucire la frattura generata dal reato sia per le parti, sia all’interno della società. Nonostante questo approccio complementare alla giustizia tradizionale sia stato inserito formalmente nel sistema giudiziario italiano con la Riforma Cartabia del 2022, ad oggi non è ancora molto diffuso.

«Il nostro modello di giustizia fatica a considerarlo, si muove ancora in modo retributivo, al male si risponde con il male. Così diventa molto più difficile che la persona riesca a smarcarsi da ciò che ha commesso, non risulta possibile che esista altro di sé, anche se c’è - spiega Anna Cattaneo educatrice di Aeper e presidente del Centro Incontra, che si occupa di giustizia riparativa - L’idea alla base è che la persona che ha commesso un reato abbia la possibilità di riappropriarsi di sé, ritrovando le aree di innocenza del suo essere e partendo da quelle per ricostruirsi e lavorare sul male fatto. La giustizia riparativa guarda al futuro, non inchioda nel passato, per questo cammina al fianco dei diversi interventi educativi, dallo studio, al lavoro, a permessi premio, a corsi di teatro e laboratori».

«Non dimenticarti di Abele» si legge in chiusura del libro. Abele è la persona offesa, che nelle pagine di «Fine pena: ora» non c’è, ma che di fatto è parte di ciò che propone la giustizia riparativa, ossia l’incontro tra la persona offesa o la sua famiglia e chi l’ha ferita. «La possibilità dell’incontro con il volto di colei o colui a cui ho fatto del male mi consente di assumere la consapevolezza delle mie azioni e trovare riparazione nell’incontro e nel dialogo - spiega Anna Cattaneo - La storia non parla di questo, ma ne pone le basi: ognuno di noi è luce e ombra e nessuno può essere ridotto solamente al gesto che ha fatto. La scommessa della giustizia riparativa sta poi nella possibilità che l’offeso veda che l’altro si è ravveduto riguardo a ciò che ha commesso e che prometta di non farlo mai più».

L’approccio riparativo inoltre non “ripara” solo la realtà del colpevole, ma si occupa anche di chi ha subito il reato o della sua famiglia. «In questo incontro la vittima ha la possibilità di portare le sue domande di verità e giustizia proprio a chi ha sferrato il colpo. Diventa protagonista, insieme all’altro difficile, della risoluzione e riparazione degli effetti causati dal reato stesso - aggiunge Cattaneo - Vedere l’umanità dell’altro consente di renderlo meno pericoloso e accelera il processo di guarigione per aprire e pulire il futuro. Questi percorsi sono sempre volontari e liberi e possono coinvolgere vittime dirette e indirette, perché come sappiamo ogni reato miete più vittime, il male trova le sue vie per dilagare. Nessuno può essere obbligato a fare un incontro di questo tipo se non lo desidera. La giustizia riparativa è una giustizia mite, che prova a rispondere al male non con la violenza della pena, ma con la responsabilità della riparazione».

«Inoltre, a livello culturale è importante che la comunità possa desiderare che queste persone tornino indietro, per non perdere nessuno - conclude l’educatrice di Aeper - Ciò non significa riavvolgere il nastro, perché il male fatto rimane come qualcosa di tangibile non solo nelle anime, ma anche nei corpi. Sporca le relazioni e il vivere sociale, ma noi non vogliamo che queste persone rimangano dannate in eterno, al contrario desideriamo che ciascuno sia messo nella condizione di ritrovare la propria umanità così da riscattarsi e dimostrare che può dare qualcosa a questo mondo».

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