È più stretto di quanto si pensi il legame tra le Orobie e la Cordigliera delle Ande. Era il 1962, quando Papa Giovanni XXIII invitò la sua diocesi natale ad accorrere in aiuto alla Chiesa boliviana. L’11 ottobre, il vescovo di Bergamo rispose all’appello inviando in loco i suoi primi missionari diocesani. Era solo l’inizio di un lungo e solido gemellaggio, che vede ancora oggi presenti sul territorio tre vescovi di origine bergamasca.
Per il sessantesimo anniversario della sua presenza missionaria nel mondo – presenza che cominciò, come detto, proprio in Bolivia – la Diocesi di Bergamo pubblica “Bergamo in Bolivia” , una testimonianza di solidarietà lasciataci da Mons. Gennaro Maria Prata, un uomo che dedicò la vita per i poveri del mondo. Il libro verrà presentato domenica 30 gennaio alle 10, presso la Chiesa Maggiore del Patronato San Vincenzo.
Per l’occasione, abbiamo chiesto a due giovani bergamaschi, Davide Cavalleri e Alessandra Baldini, di condividere con noi qualche riflessione nata dall’esperienza di missione che ciascuno di loro ha vissuto – in tempi diversi – in terra boliviana. Questo è il loro racconto.
La testimonianza di Davide
Ci accoglie rimanendo seduta su di un ceppo di legno tagliato a metà e accomodato alla bell’e meglio nel patio della sua casa costruita con mattoni di argilla e dal precario tetto in paglia. Per arrivarci, si scende lungo uno scosceso sentiero in terra rossa che si snoda tra gli appezzamenti coltivati a mais e manioca. Le solitarie e maestose montagne della Cordigliera delle Ande fanno da sfondo al paesaggio bucolico e ormai quasi totalmente disabitato della comunità di Quebrada, uno dei pueblos più isolati e difficilmente raggiungibili (specie durante la stagione delle piogge) della parrocchia San Marcos de Araca, nella Bolivia andina.
Qui, in questi luoghi sperduti e piuttosto inospitali, ho trascorso due anni della mia vita (dal 2016 al 2018) in qualità di missionario laico Fidei Donum. Lei, doña Carmen, ultra 80enne ormai totalmente sdentata, seduta su quel ceppo ci sta da tutta la vita. Le stiamo facendo visita per consegnarle una serie di borse di alimenti che il Progetto Kantutitas dona mensilmente alle famiglie più povere della parrocchia.
Parla solo aymara (antica lingua dell’altipiano boliviano) e per comprendere quello che dice abbiamo bisogno di un interprete. Il volto è solcato da profonde rughe che ne rivelano inesorabilmente l’età avanzata. Le mani e i talloni dei piedi portano i segni del faticoso lavoro contadino. Parla volentieri della sua vita, del lavoro nei campi che le permette di tirare avanti, della comunità che si svuota di anno in anno, della sua famiglia disastrata. Racconta che ha quattro figli “Anzi tre: uno è morto diversi anni fa”.
Alicia e Romerio, gli unici rimasti in casa con lei, hanno anche loro una certa età e sono affetti da forme più o meno gravi di autismo. Nessuno dei due è in grado di parlare, ma sfoderano dei meravigliosi sorrisi ogni volta che incrociano lo sguardo di noi visitatori. Poi, tutto d’un tratto, nel flusso di pensieri condensati in pochi minuti, la nostra giovane interprete traduce quelle parole: potentissime, spiazzanti, vere come solo le parole di una vita vissuta sanno essere. “Io non sono arrabbiata per il poco che mi ha dato la vita, però tutte le sere prima di addormentarmi parlo con Dio e gli chiedo come mai sia tanto arrabbiato con me da avermi dato in sorte tutte queste difficoltà”.
Sono tornato in Bolivia – tre anni dopo aver concluso la mia esperienza da volontario – per girare il docufilm che verrà presentato a marzo dal Centro missionario in occasione dei sessant’anni delle missioni diocesane nel mondo. Come avevo ampiamente previsto, è stata per me l’occasione di riconciliarmi con un tipo di umanità molto schiva e tremendamente concreta come quella andina. Un tipo di umanità fatta di minatori e campesinos (contadini): gente povera, umile, semplice che doña Carmen incarna con tanta precisione. Se il mondo ha ancora delle periferie – non solo geografiche, ma soprattutto umane e perfino esistenziali – la parrocchia San Marcos de Araca è certamente una di quelle. Qui ogni cosa è ridotta all’essenziale; ogni lusso negato; ogni vita tradita nella speranza di un’esistenza migliore.
Ho scelto di vivere qui i miei due anni di missione (consapevole delle difficoltà che avrei incontrato) proprio perché avevo intuito che in questo angolo di mondo mi sarei confrontato con un’umanità “fuori catalogo” e lontana dalle cronache del nostro tempo. Sentivo il bisogno di avvicinarmi con discrezione ad un’alterità molto distante da quella della mia quotidianità bergamasca, anzi, direi quasi diametralmente opposta. Un’alterità che, in meno di un amen, mi ha fatto rendere conto che io lì ero solo un ospite, un corpo estraneo, un gringo (termine usato per definire i bianchi occidentali) di passaggio che deve entrare in punta di piedi in casa altrui; che deve farsi accettare e accogliere da una cultura altra.
Ecco perché ho sempre ritenuto – e continuo a ritenere – che il compito ultimo di un missionario (indistintamente laico o religioso) sia precisamente quello di “stare” con la gente che gli viene affidata: farsi prossimo, praticare fraternità, “servire la vita dove la vita accade”, come scriveva giustamente il nostro vescovo Francesco nella lettera pastorale 2020-2021.
Non c’è bisogno di fare grandi cose (per altro prerogativa tipica di noi bergamaschi), non c’è bisogno di ingegnarsi in strabilianti opere: credo che sia sufficiente essere presenti nella quotidianità. Il missionario, in fondo, è un costruttore di ponti o, se si preferisce, un demolitore di muri. Il missionario è chiamato ad essere seme di fraternità in un mondo sempre più globalizzato ma sempre più chiuso e ombelicale. E lo scrive meravigliosamente anche Papa Francesco nella sua ultima enciclica “Fratelli tutti” al numero 12: “Tale cultura (della globalizzazione, ndr) unifica il mondo ma divide le persone e le nazioni, perché ‘la società più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli’”.
Ecco perché ho scelto di partire per la missione. Ecco perché ho scelto una delle (tante) periferie del mondo per spendere questi due anni di vita da missionario: per storie come quella di doña Carmen, perché mi ostino a credere che, in fondo, porgere l’orecchio alle vicende – e talvolta alle miserie – umane valga sempre la pena.
(Davide Cavalleri)
La testimonianza di Alessandra
La mia partenza per la Bolivia non è stata una scelta meditata a lungo: è stata più un treno in corsa, su cui saltare a bordo o lasciar passare. L’incontro con questa possibilità è stato casuale: mi ero laureata in Psicologia e dovevo cercare un posto per il mio tirocinio. Tramite il Patronato San Vincenzo, ho saputo di questa possibilità e nell’arco di un mese, tra i tanti dubbi e paure e l’apprensione della mia famiglia, ho maturato la mia scelta: sarei partita per Cochabamba. Ho due immagini forti impresse nella mente: la prima è la visione della città dall’aereo, dall’alto, mentre atterravo. Un panorama stupendo, fatto di case colorate, montagne, una città immensa; la seconda è il cielo stellato visto una notte al Salar de Uyuni, un cielo che non dimenticherò mai. All’interno di questi due estremi ci sta tutto il contenuto vero. Sono stata ospitata a Cochabamba, presso la Ciudad de Los niños, con don Gianluca Mascheroni.
La Ciudad è composta da case famiglia in cui vengono accolti bambini con problemi familiari: abusi, maltrattamenti, mancanza di risorse economiche, condizioni igieniche insoddisfacenti. Il lavoro che contraddistingue l’istituto del Patronato dagli altri centri è proprio il tentativo di rieducazione delle famiglie, dirette o meno, dei bambini, in modo da promuovere un possibile reinserimento familiare. Io avevo vari compiti, ero responsabile della Ludoteca (asilo nido); con gli altri volontari organizzavamo alcune attività laboratoriali come orto, teatro, ginnastica, disegno. Entravo nelle case in sostituzione delle educatrici. Inoltre, proprio per il mio tirocinio, ho avuto la possibilità di lavorare con la psicologa, Monica, con cui ho costruito un rapporto davvero speciale.
In questo percorso ho conosciuto tante persone: i bambini e i ragazzi, le persone che lavorano alla Ciudad de los niños, amici al di fuori dell’istituzione, tutti i volontari. Ognuna di loro mi ha donato un pezzo di sé, facendomi sentire a Casa: loro erano la mia Casa, perché insieme abbiamo fatto il vero Viaggio, all’interno di noi stessi, ognuno alla scoperta dell’altro. Credo che sia questa la vera meraviglia, quello che mi sono portata a casa: le Relazioni, le storie che ho vissuto con le persone che ho incontrato. Le relazioni sono linfa vitale, ci aiutano a crescere, a migliorarci, a non fermarci mai e a sentirci vivi.
Ricordate le prime due immagini che vi ho detto all’inizio? Ecco, vi ho parlato del cielo della Bolivia: quello visto dall’alto dell’aereo e quello del deserto di sale: quest’ultimo l’ho visto la mia ultima settimana. Ricordo ancora la sensazione di trovarmi dentro un immenso contenitore e di sentirmi solo un puntino, il viso alzato verso l’alto ad ammirare la Via Lattea con le lacrime che scorrevano, ricordando tutti i mesi vissuti, tutto quello che mi era stato donato. Queste due immagini sono riflesso del mio percorso: l’inizio del mio arrivo, dall’alto, immagine stereotipata del volontario occidentale in un paese disastrato; e la fine: io, un puntino minimo nell’immensità di questo mondo, che dal basso guarda la vastità del cielo e la bellezza delle sue infinite stelle, e si commuove.
La missione parte da casa e torna ancora lì, nel rapporto con i familiari, nel contatto con i colleghi di lavoro, nell’incontro con le tante persone che incrocio ogni giorno. Noi siamo mandati a ogni persona che incontriamo. In un mondo dove vige la paura dell’Altro, non chiudiamoci all’incontro, non temiamo di farci guardare e toccare nel profondo e poi fare altrettanto. Abbandoniamo l’idea di un “noi” e un “loro”; abbiamo, invece, il coraggio di prenderci per mano. Ho capito che tutti abbiamo da imparare reciprocamente, perché siamo come le stelle di quel cielo infinito. Da soli non siamo altro che piccoli puntini, ma insieme possiamo illuminare un intero deserto.
(Alessandra Baldini)