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Don Renato Sacco: «quanti morti servono per dire “adesso dobbiamo ragionare”»?

Intervista. Molte fedi sotto lo stesso cielo e ACLI Lombardia organizzano un dialogo per riflettere sul conflitto in Ucraina. «Più armi, più sicurezza?» il titolo dell’incontro. Interverranno don Renato Sacco, già coordinatore nazionale di Pax Christi, e Antonio Misiani, senatore del Partito Democratico. Venerdì 25 marzo, dalle ore 20:45, in diretta sui canali social di Molte Fedi, ACLI Lombardia ed Eppen

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Mariupol dopo i bombardamenti dei giorni scorsi (foto Forze armate ucraine US)

Riflettere criticamente su quanto sta accadendo in Europa, senza pregiudizi o preconcetti. Riflettere sul conflitto e le parti in causa, con ben chiare in testa le (inequivocabili) responsabilità della guerra, ma con la volontà di affrontare la complessità – perché la guerra è “semplice” solo nella sua rappresentazione – degli eventi cui stiamo assistendo. E come questi eventi si stiano riflettendo sulle scelte del nostro Paese: politiche ed economiche (il Decreto Ucraina), e di conseguenza etiche e morali. Ne abbiamo parlato con don Renato Sacco.

MR: È curiosa, diciamo così, questa intransigenza di larga parte del mondo che si definisce liberale verso chi senza compromessi si professa pacifista, o «costruttore di pace» come ama definirsi lei.

RS: Io credo che la pace non sia un hobby. La pace è un valore assoluto, va ricercata senza se e senza ma. Spesso però legati alla parola pace ci sono l’ignavia, la codardia, l’amico del nemico. C’è questo monocolore ormai che o sei per la guerra o sei un traditore. La parola pace è più impegnativa, complessa. Mi stupisco di chi si dice per la pace ma poi sostiene che però la guerra “quando ci vuole, ci vuole”. Un po’ come “non sono razzista ma”. È la stessa cosa. È proprio quando c’è la guerra che bisogna costruire la pace. A fare la pace alla festa del battesimo del figlio siamo tutti bravi. Nel momento in cui c’è la guerra bisogna capire qual è la strada della pace, se ci crediamo ancora che la pace è un valore assoluto. O strizziamo l’occhio alla guerra?

MR: Questa logica manichea cui ha accennato, che è quasi fideistica, è costitutiva di una narrazione per cui: o continuiamo a mandare le armi all’Ucraina o non solo si sottoscrive la distruzione di un paese e della sua gente, ma addirittura della democrazia. Che ne pensa?

RS: È la logica della guerra, di tutte le guerre. La guerra spacca le vite, dilania i corpi ma anche i cuori, crea odio, ovunque. Qui da noi il clima si sta surriscaldando, con questo stile di discutere della guerra come se fosse il calcio, con un tifo da stadio, con un’informazione che se non è allineata diventa traditrice. Questo crea una mentalità difficile da sconfiggere, per cui tu sei un traditore e non uno con cui ragionare. E invece proprio adesso credo si debba non giustificare ma capire, capire cosa sta succedendo e come ne possiamo uscire. Ne possiamo uscire vendendo o addirittura regalando armi? Stupisce che siano i generali i più critici di fronte a questa scelta, e loro se ne intendono di guerra.

MR: C’è invece chi questa cosa la cavalca.

RS: Io abito vicino a Cameri dove si producono gli F35. Da sempre i politici ne decantano le qualità: «10mila posti di lavoro», oppure «gli F35 possono essere utilizzati anche per altre cose». No, quello è un caccia d’attacco, può trasportare le armi nucleari, qualcuno è già arrivato anche a Ghedi (Brescia, ndr) dove ci sono le armi nucleari. L’unico che ammette un po’ questo è il mondo militare, che mette in guardia e dice «ma vi rendete conto di quello che state dicendo?». Non è la democrazia in Ucraina a rischio, è la vita del mondo, è la terza guerra mondiale con il coinvolgimento nucleare. E allora non si può ragionare con il tifo da stadio, la pace è una cosa seria, va studiata, va messa sul tavolo.

MR: Antonio Misiani è esponente di un partito che professa la pace ma allo stesso tempo – come sappiamo – è allineato nell’alimentare questa guerra. Lo stesso partito esprime un ministro della difesa con una linea politica tutt’altro che pacifista. Le spese militari erano già esorbitanti. Come ha notato, addirittura aumenteranno. Non sarebbe il caso che tutto il mondo cattolico condanni con forza e radicalità questa ambiguità? Come indicato dal papa, del resto.

RS: Sottoscrivo al cento per cento. L’ho incontrato, il ministro Guerini, e ho detto anche a lui: siamo alla follia, si parla di pace ma l’unico modo per declinarla, anche quando si parla di difesa, è la guerra. La Costituzione dice che è sacrosanto dovere dei cittadini difendere la patria, ma non obbliga e non dice che è una difesa armata. Noi ragioniamo solo in termini di armi. Viene da pensare, e lo dico in modo provocatorio: ma questi parlamentari sono a libro paga di qualche lobby delle armi? Di qualche grande impresa? O sul libro paga della NATO? Non abbiamo ancora chiuso la tragedia del Covid, e i lettori della zona di Bergamo sanno bene, e forse più di altri, cosa ha voluto dire. Mancavano i respiratori, mancavano le bombole di ossigeno; l’unica attività aperta, oltre a quella alimentare e farmaceutica, era l’industria delle armi. Cameri ha continuato a lavorare anche quando tutte le imprese erano chiuse, in una società dove per fare un semplice esame medico bisogna aspettare mesi.

MR: I vantaggi della guerra, non solo economici, non riguardano solo le industrie belliche e della Difesa. Interessano anche i media, l’informazione si fa intrattenimento spesso morboso, spettacolarizzazione. E tutto questo genera numeri, audience, dall’inizio della guerra sono aumentati gli abbonamenti digitali agli organi di informazione. Sembra che la guerra faccia comodo su molti fronti.

RS: Tocca la morbosità, c’era un articolo dell’Avvenire che parlava del fascino della guerra. La morbosità del vedere fa audience, un missile che cade, una persona morta per terra. Questo non è giornalismo. Abbiamo adesso dei giornalisti che morbosamente seguono queste cose, non faccio nomi ma c’è chi arrivava a Bagdad nell’aprile del 2003 al seguito dei carrarmati americani. Qui siamo schierati contro i russi e va bene, ma tu che storia hai di informazione? Ti sei presentata al mondo schierata dalla parte degli americani, che facevano le stesse cose che fanno i russi in Ucraina: le stesse cose le facevano gli americani in Iraq, le ho viste io con i miei occhi. La guerra fa fare anche un po’ di carriera?

MR: È evidente (e pericolosa) una doppia morale sulla guerra, sui rifugiati, sulla solidarietà, sulla disponibilità all’accoglienza.

RS: Non vorrei essere frainteso. La disponibilità di tanta gente ad accogliere è un fatto positivo, credo sia una cosa davvero molto bella. Questo è un aspetto positivo da valorizzare. L’altro aspetto, soprattutto a livello di istituzioni, è che rischiamo un razzismo di accoglienza. Chi scappa dalla tragedia dell’Ucraina ha tutto il diritto di avere un pulmino che li carica e li porta qui. Anche quelli che scappano dalla Siria o dall’Afghanistan però, che sono dietro a un muro di filo spinato e scappano da guerre alimentate anche da noi. Adesso è tutto aperto, nel giro di pochi giorni ci sono documenti, regolarizzazione, medico, inserimento a scuola, e sono contentissimo che venga fatto con gli ucraini, ma ci sono tanti altri che aspettano due anni l’appuntamento in questura. Sono forse figli di un dio minore? Dobbiamo ricordare che ci sono tante altre guerre, anche dimenticate. La Turchia per esempio sta bombardando il Kurdistan ma pare non freghi niente a nessuno: i curdi forse valgono di meno? Gli iracheni? I siriani? Perché non cogliere l’occasione per dire che tutte le guerre sono brutte e tutti i rifugiati hanno la stessa dignità?

MR: La strategia di comunicazione di Zelensky e di Kiev ha previsto collegamenti video con i parlamenti, video-montaggi che spettacolarizzano ed estetizzano la guerra difensiva, parallelismi audaci con altri contesti storici. Tutto punta a un forte coinvolgimento emotivo dell’opinione pubblica internazionale da una parte, e dall’altra – molto più grave – a un allargamento del conflitto inteso come opportunità, e non come catastrofe. Chiedere la no-fly zone significa chiedere coscientemente di aprire una guerra mondiale. Quanto è importante provare a riflettere criticamente anche su questi aspetti?

RS: Pone un nodo vero. Da sempre la prima vittima della guerra è la verità. Prima c’erano i bollettini, ora possiamo vedere in diretta un presidente sotto attacco. È chiaro che poi c’è una regia di propaganda, perché la propaganda è fondamentale. Ricordo il vescovo ausiliare di Sarajevo durante la guerra, Pero Sudar, quando qui l’hanno contestato. Diceva: da quanti anni è che la Francia e la Germania non fanno guerra? Datemi i mezzi di informazione e io faccio scoppiare la guerra tra la Francia e la Germania. La guerra diventa uno spettacolo che fa vendere un prodotto – prima il Covid, poi Sanremo, adesso la guerra – dall’altra parte la propaganda è micidiale. Un parlamentare mi ha detto che parlare di pace vuol dire essere pervasi da ignavia: la prossima accusa sarà di essere un traditore della patria? Un venduto? Un disertore? Quando li vediamo in Africa diciamo “ah i bambini soldato”, qua li prendiamo a esempio della resistenza? Tutto viene usato e manipolato. Le armi... in Ucraina ce ne sono tantissime, i generali stessi ci dicono che è propaganda anche decidere di mandare le armi perché non sappiamo a chi vanno in mano. In Ucraina non mancano armi, gliene abbiamo date per miliardi in questi anni.

MR: Ragionare anche sulla risposta delle vittime è comunque propedeutico alla conoscenza, se non alla verità?

RS: Chi era contro la guerra in Iraq era definito amico di Saddam. A me accusavano di essere amico di Saddam, le persone che avevano fatto affari d’oro, perché a Saddam si vendeva di tutto. Quando serviva, Saddam pagava ed era un caro amico. Quando però dicevi che non era giusto bombardare perché la guerra è sbagliata, ecco allora sei amico di Saddam. Ci ricordiamo il segretario di Stato americano con la boccettina in mano. Cosa è successo: la guerra, una tragedia che continua, centinaia di migliaia di morti, e poi Bush e Blair hanno detto «scusate, ci siamo sbagliati». Però la propaganda è stata micidiale per cui anche la gente diceva ecco se sei contro la guerra sei amico di Saddam, ma per noi Saddam era un tiranno, ed eravamo dalla parte del popolo iracheno. Siamo vicini anche ai russi che non vogliono la guerra, a chi rischia di andare in galera.

MR: Anche in Ucraina c’è un movimento non violento...

RS: Certo, abbiamo collegamenti, ma sono tacitati, non hanno diritto di parola, c’è la legge marziale non dimentichiamolo, si rischia la fucilazione. Dire «se ragioni così sei amico del nemico» è già una grande propaganda. Forse il ragionare, cosa ormai diventata faticosa, può essere la premessa per la pace, e se si vuole la pace bisognerà sedersi a un tavolo, perché è sempre stato così. Oppure vogliamo i morti perché fanno peso nelle trattative? Quando allora ce ne saranno centinaia di migliaia bisognerà dire adesso ci fermiamo. Ma qual è il livello di tolleranza oltre il quale poi si dice “adesso dobbiamo ragionare”?

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