Cosa succede quando una società decide di chiudere a chiave le sue paure, le sue fragilità e i suoi fallimenti? Cosa rimane di chi viene lasciato a scontare non solo una pena, ma anche l’oblio collettivo? In «Ogni prigione è un’isola» Daria Bignardi ci costringe a guardare dentro un mondo che esiste ai margini delle nostre città ma anche delle nostre coscienze: il carcere.
«Ogni carcere è un’isola, ogni isola una prigione» è la frase cardine del romanzo di Bignardi edito da Mondadori perché racchiude il senso profondo dell’isolamento, fisico e mentale, che attraversa la storia. Una storia che vede la giornalista coinvolta in prima persona perché lei il carcere lo frequenta da quando aveva vent’anni. Ecco il link all’evento.
Più che essere un libro sul carcere, si tratta di un libro su ciò che il carcere dice di noi. Di chi siamo, di come viviamo la giustizia, di quanto siamo disposti a dimenticare chi sbaglia. E di quanto ci illudiamo di essere liberi.
Daria Bignardi scrive partendo da un’isola. Linosa, un luogo remoto che nei suoi colori e nel suo isolamento richiama l’immagine stessa della prigione. L’isola è una metafora potente per parlare di una separazione che non riguarda solo chi è detenuto ma anche chi vive libero, credendosi al sicuro. È qui che l’autrice sceglie di affrontare un’ossessione che ha radici profonde: il carcere non solo come luogo fisico, ma come esperienza umana, come condizione dell’anima.
Linosa è anche l’isola nota per aver accolto negli anni Settanta i mafiosi in soggiorno obbligato ed è il posto che sceglie per portare a termine il suo libro.
A vent’anni, Bignardi scriveva lettere a un detenuto nel braccio della morte in Texas. Poi ha scelto di fare volontariato nelle carceri italiane, di entrare nelle celle, di ascoltare storie, di dare voce a chi non ne aveva. Ha collaborato con «Il Due», il giornale del carcere di San Vittore, e ha intervistato detenuti per «Tempi Moderni».
Quando il 9 marzo 2020 i detenuti di San Vittore salirono sul tetto per protestare durante la pandemia, Daria Bignardi era lì, davanti al carcere. Era scesa in strada per capire cosa stesse succedendo, per vedere con i suoi occhi quella rivolta. Nel video pubblicato online, si vede il suo giaccone giallo tra la folla, mentre racconta il caos, la tensione, la paura che respirava nell’aria.
«In quel video ho detto ciò che pensavo: - Abbiamo paura anche noi. Provate a immaginare che paura possono avere loro, chiusi lì dentro. – E terminavo dicendo: - Servono misure alternative. - Dietro di me si sentivano le urla e si vedevano i detenuti sul tetto protestare con le braccia alzate. Il video di quel giorno è stato caricato sul sito del “Corriere” e i commentatori mi hanno coperta di insulti, cosa che non mi ha stupita e nemmeno ferita: so come vanno le cose col carcere. Il carcere lo odiano tutti. Alcuni amano il carcere di altri, per così dire».
Al 30 giugno 2024, nelle carceri italiane si contano 61.480 detenuti, un numero che supera di circa 14.000 unità la capacità regolamentare dei posti letto disponibili. Questo dato, emerso dall’ultimo dossier di Antigone pubblicato a luglio 2024, evidenzia come il sovraffollamento carcerario rappresenti un problema strutturale e persistente all’interno del sistema penitenziario italiano.
Ma chi sono davvero i detenuti? Cosa hanno fatto per meritare la condanna sociale prima ancora di quella giudiziaria? Bignardi non cerca scuse, non giustifica nessuno. Però racconta storie. Storie di povertà, di emarginazione, di errori pagati a caro prezzo. Storie di uomini e donne che sono arrivati in carcere non solo per una colpa, ma per una condizione sociale.
Scrive: «Gran parte delle persone che stanno in carcere non ci è arrivata per una scelta libera, ma influenzata dalla condizione sociale, culturale, dal caso e dalla sfortuna».
Il carcere diventa allora lo specchio di una società che decide chi includere e chi escludere, chi merita una seconda possibilità e chi deve essere dimenticato. Non è solo un luogo di punizione, è il luogo in cui finiscono coloro che non sanno come salvarsi, perché non hanno avuto gli strumenti per farlo.
È un’isola, come dice il titolo del libro. Un’isola che ci fa sentire al sicuro perché ci illude che il male sia contenuto lì, lontano da noi. Ma è un’illusione, appunto. Perché quelle storie ci riguardano. Perché quelle persone potrebbero essere noi.
In questo viaggio dentro il carcere, Daria Bignardi incontra anche le donne. Un mondo ancora più nascosto, ancora più dimenticato. Racconta di come il carcere sia stato pensato per gli uomini, di come le donne scontino una pena doppia: quella per il loro reato e quella per aver violato il ruolo sociale che la società impone loro. Madri, figlie, compagne che sono considerate colpevoli due volte perché non hanno rispettato le aspettative di cura, di dolcezza, di femminilità.
Scrive di Patrizia Reggiani, della sua freddezza, della sua ironia. Ma anche di donne povere, emarginate, sole. Donne che fuori dal carcere non hanno nessuno che le aspetti, che non sanno dove andare. Donne che, anche fuori, restano prigioniere.
In «Ogni prigione è un’isola», la violenza non ha un solo volto. Non ci sono solo carnefici e vittime. C’è un sistema che schiaccia tutti, detenuti e guardie. Un sistema che si autoalimenta, che si giustifica, che normalizza l’abuso di potere.
Daria Bignardi lascia Linosa e ci interpella con tanti interrogativi: Chi siamo noi per condannare? E se anche noi fossimo prigionieri, chiusi in gabbie invisibili fatte di paura, di pregiudizio, di indifferenza?
L’abbiamo intervistata.
CP: Lei scrive che “in carcere c’è tutto quello che conta”. Cosa ha visto nelle prigioni che il mondo libero ignora o non vuole vedere?
DB: Intendo dire che ci sono l’amore, il dolore, la malattia, l’amicizia, la paura, il coraggio: che ciò che davvero conta è illuminato, è più evidente, come in guerra, come nella giungla.
CP: Le istituzioni totali, come lo è il carcere, plasmano l’identità di chi le vive. Chi entra in carcere, ne esce mai davvero?
DB: Gli ex detenuti che ci sono rimasti a lungo dicono di no: che sei strato carcerato una volta lo rimani per sempre.
CP: C’è un passaggio in cui dice che “tutti odiano il carcere, ma alcuni amano il carcere degli altri”. È questa la radice dell’inerzia collettiva di fronte alle condizioni dei detenuti?
DB: Sì, ma è comprensibile. Se non si conosce la realtà del carcere è umano provare sentimenti di paura o di vendetta nei confronti di chi ci sta.
CP: La detenzione infligge una pena che va oltre quella prevista dalla legge: l’isolamento, l’annullamento della persona, le condizioni degradanti. Questa “doppia pena” è una forma di abuso di Stato?
DB: L’isolamento è una tortura. Lo ha raccontato bene Cecilia Sala appena tornata dalla detenzione nel carcere di Ervin a Teheran. Le condizioni degradanti tolgono identità e dignità: i valori sui quali si fonda il nostro equilibrio.
CP: La violenza è il riflesso di una società che non considera i detenuti esseri umani a pieno titolo?
DB: La violenza in carcere è endogena. È una condizione di cui tutti sono vittime: chi in carcere lavora e chi sconta una pena. È il sistema carcerario a essere violento.
CP: C’è una narrazione dominante che vuole il carcere come unico strumento di giustizia. Chi trae vantaggio dal mantenimento di questa idea?
DB: Il cittadino forse si sente ingannevolmente rassicurato anche se è vero il contrario: più carcere, e più brutto, e più recidiva, quindi meno sicurezza. La politica ne approfitta per fare propaganda. Ma negli ultimi trent’anni né destra né sinistra hanno cercato di migliorare le cose. L’unica che ci ha un po’provato, la ministra Cartabia, è durata poco.
CP: Perché il protezionismo verso le forze dell’ordine è così forte? Come si può garantire trasparenza e giustizia senza cadere nell’impunità?
DB: Trasparenza e giustizia convengono a tutti, Forze dell’Ordine per prime. Soprattutto servono risorse, formazione: con i proclami roboanti magari i politici si lavano la coscienza per tutto quello che non fanno per chi lavora per lo Stato.
CP: Molti detenuti provengono da contesti di povertà e delinquenza, nei quali la trasgressione è normalizzata. Trasgredire la legge o delinquere è una scelta consapevole o spesso è l’unica alternativa?
DB: La maggior parte delle persone ristrette ci tengono a che sia riconosciuto il loro libero arbitrio. Ma è innegabile che oggi in carcere ci siano soprattutto persone che arrivano da situazioni molto disagiate. Persone straniere magari traumatizzate dalle torture nelle carceri libiche e le traversate in condizioni disumane, malati psichiatrici, tossicodipendenti, poveri.
CP: Il 41 bis viene spesso difeso come necessario, ma lei lo definisce anacronistico. Perché e quale alternativa potrebbe esserci?
DB: Non sono io a definirlo così: nel libro lo fa un ispettore di Polizia penitenziaria. Dice che è anacronistico e inutile perché se le persone detenute vogliono far arrivare messaggi o direttive (impedirlo sarebbe la ragione del 41 bis) possono farlo attraverso i loro avvocati.
CP: Eliminare la violenza strutturale dalle carceri è possibile o il sistema stesso la rende inevitabile?
DB: Dobbiamo pensare che il sistema potrebbe e dovrebbe cambiare anche se non ci sono segnali che lo stia facendo, se non in peggio.
CP: Se, come scrive, il carcere è uno strumento di espulsione sociale, quali alternative concrete potrebbero sostituirlo per i reati minori?
DB: Anche questo non lo dico io ma i direttori di carcere, i magistrati: pene alternative, servizi sociali, affidamento, lavoro esterno.
CP: Il sovraffollamento delle carceri è un’emergenza da decenni. Esiste davvero la volontà politica di risolverlo o è un problema volutamente lasciato irrisolto?
DB: Non credo che esista la volontà politica di risolverlo. Migliorare il carcere non porta voti: la propaganda sul chiudere la gente in carcere e buttare la chiave sì.
CP: Qual è la sua prigione, oltre alla sua cabina armadio :)?
DB: Qualche paura irrisolta immagino. E i condizionamenti a cui siamo tutti sottoposti, le donne specialmente.