«M i ritiro nella mia oscurità, nella mia solitudine, in compagnia del mio cuore, lasciando senza rimpianti questo mondo seducente, i cui bei sentieri conducono tutti al deserto dell’egoismo». Queste poche righe, a opera di Costantino Beltrami (patriota e viaggiatore, nato a Bergamo nel 1779), evocano amarezza, disincanto, rassegnazione: in esse, sembra riecheggiare imperioso l’omnia vanitas di biblica memoria. Eppure, prima di assumere l’appellativo di «fra Giacomo» e abbandonarsi alla vita contemplativa, quella di Beltrami fu un’esistenza avventurosa, in linea con quell’immaginario romantico che, all’epoca, pervadeva le corti e i salotti buoni di tutta Europa.
Una figura errante, indomita e fascinosa, poliedrica, carica di passione, i cui studi e i cui contributi, ancor oggi, sono poco conosciuti al grande pubblico. Da qui (e dal bicentenario del viaggio che permise all’esploratore di scoprire, nel 1823, le sorgenti del Mississippi), la volontà, da parte del Museo civico di scienze naturali «Enrico Caffi» (in collaborazione con la biblioteca civica «Angelo Mai», la Shakopee Mdewakanton Sioux Community e la Beltrami County Historical Society), di inaugurare un nuovo percorso espositivo sul celebre bergamasco.
La mostra, a cura di Marco Valle e Barbara Mazzoleni, titolata « Il sogno di un Nuovo Mondo » e inaugurata lo scorso ottobre, durerà fino al 10 marzo e si sforza di dare una risposta esaustiva a una domanda fondamentale: chi è stato, realmente, Costantino Beltrami?
Un viaggiatore che diventa esploratore
Giacomo Costantino Beltrami nasce a Bergamo nel 1779. L’incendio della chiesa di sant’Eufemia in Città Alta, dove era stato battezzato, distrugge tutto l’archivio: non è possibile, quindi, conoscere la data esatta dei suoi natali. Cresce in una famiglia numerosa, da lui definita, in una lettera, «sventurata». Un giudizio, questo, in contrasto con il buon grado di istruzione che acquisisce. Beltrami, infatti, conosce il latino e il greco e parla correttamente il francese, competenza che gli risulta molto utile quando le milizie napoleoniche entrano in Lombardia.
Nel 1797, in qualità di soldato della Repubblica cisalpina, è tra coloro che innalzano in Piazza Vecchia l’Albero della libertà; nello stesso periodo lascia Bergamo per intraprendere, nel giro di pochi anni, una carriera strepitosa, ricoprendo incarichi di prestigio prima nell’ambito dell’approvvigionamento delle truppe francesi e successivamente nella magistratura, che lo condurranno nelle Marche. Qui, avvia una produttiva azienda agricola e, complice la sua affiliazione alla massoneria, comincia a tessere relazioni sociali e culturali fondamentali per il suo futuro. Si pensi, per esempio, a quelle con la contessa d’Albany (amante di Vittorio Alfieri, nonché moglie di Carlo Edoardo Stuart, pretendente giacobita al trono d’Inghilterra), nel cui salotto si riuniscono letterati del calibro di Ugo Foscolo e Lord Byron; ma anche a quelle con l’amata Giulia de Medici Spada. Sono la morte di quest’ultima e l’accusa di cospirazione contro lo Stato Pontificio (e di presunte simpatie carbonare) a spingerlo, nel 1821, a lasciare l’Italia per un “pellegrinaggio” che lo conduce inizialmente in Europa (Francia, Germania, Inghilterra) e, in seguito, negli Stati Uniti.
In America, per una serie di favorevoli coincidenze, Beltrami si reinventa esploratore, sfidando la wilderness di quella terra per risalire in canoa il Mississippi, facendo sosta nei villaggi degli Ojibwe e dei Dakot a. Pochi uomini bianchi, a quel tempo, hanno il coraggio di avvicinarsi a quelle tribù. Beltrami è uno di essi. Questa convivenza (durata più di nove mesi), gli permette di descrivere minuziosamente la vita, i riti e i costumi dei nativi, con i quali instaura un rapporto di reciproca stima. Appunti che gli permettono di pubblicare diversi libri: come, per esempio, «La Découverte des sources du Mississippi et de la Rivière Sanglante» (1824), ma anche di comporre il primo dizionario inglese-sioux (ristampato da Lakota Books e utilizzato ancora oggi).
Le sue opere però, al centro di un vero e proprio plagio da parte di osannati scrittori come de Chateaubriand e Cooper, vengono giudicate dilettantistiche dalla comunità accademica. Pure la discoperta delle sorgenti del Mississippi (per la quale il viaggiatore orobico redige una mappa e una completa descrizione) viene sminuita.
Dopo un viaggio in Messico e uno nei Caraibi, Beltrami torna nel Vecchio Mondo. Deluso per non avere incontrato i riconoscimenti ambiti, si ritira in una cella del suo palazzo a Filottrano, restandovi fino alla morte, avvenuta nel 1855. Poco dopo, il nipote Giovanni Battista Amilcare Beltrami dona alla città di Bergamo una ricca raccolta di materiale documentario e etnografico.
La mostra, testimonianza a colori di un mondo scomparso
Senza questo materiale (e senza quello giunto dalla collezione Beltrami-Luchetti), turisti e curiosi non potrebbero ammirare, per esempio, i quadretti a mosaico di penne di colibrì (che colori!) o i mocassini decorati con aculei di porcospino o il superbo cappotto in pelle d’alce e nemmeno l’iconico ombrello rosso di Beltrami, quello che il bergamasco, in visita alle popolazioni indigene, utilizzava come bizzarro lasciapassare: un oggetto come un altro, diventato, in un certo senso, allegoria della sua mitezza e del grande riguardo che coltivava per gli abitanti originari del territorio americano.
L’esposizione si propone di restituire a Beltrami il suo posto d’onore nelle pieghe della storia e, attraverso le sue raccolte e i suoi scritti, di indagarne l’eredità culturale. Anche per questo, il museo ha intessuto una stretta collaborazione con le comunità native, in modo da raccontare l’«altro» senza cadere nella trappola dell’appropriazione e della decontestualizzazione che, del resto, avrebbe rischiato di impoverire la forza simbolica o di tradire la natura dei manufatti ereditati da Costantino Beltrami.
Di lui la mostra desidera narrare, per la prima volta, tutte le imprese: geografiche, antropologiche, letterarie, al di qua e al di là dell’oceano. Al centro, un fil rouge che si dipana fra immagini, suoni, immersioni interattive e, ovviamente, preziosi reperti: tra archi, frecce, pipe, flauti, indumenti, borse da medicina e tamburi, il visitatore è “iniziato” a una realtà spirituale molto lontana da quella occidentale, in cui la dimensione del sacro (e della magia e della superstizione) non solo è perfettamente integrata con la natura, ma anche incessantemente presente nell’organizzazione sociale e politica.
A chiudere il cerchio, i viaggi in Messico (dove strinse amicizia con il patriota don Mariano Herrera) e a Haiti e il ritorno in Europa (dove, a Parigi, partecipò alla Rivoluzione di luglio), culminato con la “conversione” alla solitudine e con lo sdegno nei confronti della “civiltà” e delle sue frivolezze mondane. Pure il capoluogo orobico non è esente dall’impietosa condanna del suo atto olografo: «Lascio a Bergamo e all’Italia la vergogna di avere lasciato nell’oblio un concittadino, un italiano le di cui discoperte gli hanno meritato perfino dagli invidiosissimi esteri il vanto di aver fatto onore all’Italia e agli italiani». Parole al veleno, cariche (con le dovute proporzioni) di quello stesso risentimento che Dante nutriva per Firenze e in grado di tracciare un ponte ideale fra Beltrami e Garibaldi, con il quale il bergamasco non solo condivide gli ideali democratici, lo spirito eroico e una vita spesa fra due continenti, ma anche il triste epilogo della propria storia.
Beltrami, un mito
La fronte alta e orgogliosa, i capelli al vento, lo sguardo severo (teso verso l’infinito) e quell’immancabile giubba decorata che, assuefatti come siamo alla volgare filmografia western, oseremmo definire (forse impropriamente) da trapper: è il ritratto (da far invidia a Alberto Korda) a opera di Enrico Scuri, che campeggia, in tutta la sua grazia, su una delle pareti della mostra. Negli occhi di Beltrami si respirano gli sterminati spazi delle Americhe ma, forse, anche il pensiero di Henry David Thoreau e i versi di Walt Whitman e probabilmente pure il fermento di John Brown. Eppure la figura di Costantino Beltrami, rimasta prigioniera di un mito cresciuto dopo la sua morte, sfugge a ogni tentativo di classificazione.
Quel che è certo è che a ispirare i suoi viaggi non fu la volontà di dominio, ma la sete di conoscenza. Prendendo le distanze da ignobili pregiudizi, Beltrami (la cui gentilezza e il cui disinteresse suscitavano la benevolenza degli indigeni) descrisse i nativi come esseri umani con dignità pari a quella dei suoi contemporanei europei ma, a differenza di questi ultimi, non accecati dalla smania di potere e di possesso. Raccolse (e salvò) importantissime testimonianze di civiltà che, a causa della ferocia del colonialismo, si sarebbero presto estinte.
Beltrami fu un libertario, che seppe valorizzare l’«altro» e guardare la diversità con amicizia e rispetto. Lo stesso rispetto che ebbe per gli ultimi e che si evince anche dal suo testamento: «La mia tomba sarà alla fossa dei poverelli, unendomi con essi loro in morte, siccome li ho sempre simpatizzati in vita». Anche per questo, Beltrami è un mito. Un mito che, in un’epoca di mediocrità culturale e di dissesto civile e sociale come la nostra, brilla come una stella del firmamento.