Infrangere i sogni di un ventenne è un compito ingrato e sgradevole. Soprattutto per chi, come me, si occupa di formazione e orientamento. Incontriamo quotidianamente giovani che faticano a pensare al futuro, a immaginarsi entro una traiettoria professionale e di vita di medio-lungo periodo. Manifestano confusione, scarsa fiducia in sé stessi, rassegnazione e malinconia. E considerano i propri desideri e sogni come irrealistici, mortificandoli preventivamente.
Riuscire, grazie alle proprie competenze tecniche e relazionali, a far emergere una persona da quello stato d’animo, a farle intravedere strumenti e modi per riarticolare quei desideri entro una prospettiva reale di crescita, è la soddisfazione più grande che si può ricavare da questo mestiere. Quando ciò accade le persone cambiano faccia, letteralmente. Lo sguardo si illumina, la postura si raddrizza, la voce muta nel tono e nel volume. Se prima si esprimevano con un linguaggio monosillabico e pieno di sconforto, ora è tutto un fiorire di domande, ipotesi, progetti. La ricompensa per noi formatori — anche sul piano narcisistico — è elevatissima. Ripaga di ogni sforzo.
Potete dunque immaginare quanto sia difficile compiere il gesto opposto. Smontare i sogni di un giovane è l’ultima cosa che vorremmo. Tuttavia, a volte, è necessario e doveroso. È una questione di responsabilità. Perché evitare quella doccia fredda significherebbe ingannare la persona che si ha davanti proprio nel momento in cui sta per compiere delle scelte formative e professionali che impatteranno in modo decisivo sul suo futuro. È il caso, ad esempio, dei giovani che arrivano alla soglia dei vent’anni con il sogno di diventare musicisti di professione.
La particolarità della mia figura — svolgo da anni un’intensa attività musicale seppur a livello semiprofessionale — fa sì che molti di questi giovani si rivolgano a me in virtù della mia conoscenza del settore. Così, a differenza della maggior parte dei miei colleghi, mi trovo spesso, mio malgrado, a infrangere i sogni di futuri musicisti. O meglio, a riportarli entro una serie di elementi di realtà che li ridimensionano in modo sostanziale. Un compito sgradevole e ingrato, appunto. Soprattutto per una persona che ama la musica come me. Ma pur sempre meno spiacevole dei tantissimi colloqui di riorientamento in cui ho incontrato giovani scoraggiati i quali, dopo aver investito tutto nella musica, si sono ritrovati a trent’anni con un pugno di mosche, convinti di non poter aspirare ad altro se non a qualche lavoro dequalificato che permetta loro di «pagare almeno le bollette senza dover vendere i propri strumenti musicali».
Ascoltare i racconti di queste persone mi ha portato a individuare una serie di nodi problematici che nulla hanno a che fare con la supposta ingenuità di questi aspiranti musicisti. Sarebbe infatti sbagliato liquidare la questione in termini morali o psicologici. Come se fosse il classico problema della transizione all’età adulta, che costringe a mettere da parte il sogno adolescenziale e irrealistico di diventare una star. I ventenni che incontro sono tutt’altro che ingenui, sognatori o immaturi. Nella maggior parte dei casi hanno alle spalle anni di pratica musicale con tutto ciò che comporta in termini di costanza e autodisciplina. Hanno già approfondito non solo lo strumento, ma anche le tecnologie contemporanee di produzione, riproduzione e fruizione della musica. Hanno studiato tanto, rinunciando a molte delle attività di svago caratteristiche dell’adolescenza. Tutto sembrano fuorché degli sprovveduti. Nemmeno dal punto di vista “manageriale”. Spesso i loro percorsi formativi (conservatori, scuole civiche di musica e altri percorsi analoghi) prevedono anche corsi di «Music Management» e discipline affini. Come mai allora vi è uno scarto così grande tra le aspettative di questi giovani e la realtà con cui, nel giro di pochi anni, saranno costretti a confrontarsi?
Nella mia esperienza, gran parte di questo scarto ha origine da un’errata rappresentazione delle coordinate del mercato del lavoro nel settore musicale . Innanzitutto sul piano quantitativo, demografico. Ai giovani che incontro è stato ripetuto per anni che il successo di una carriera musicale dipende esclusivamente da una serie di doti individuali: talento, creatività, studio, disciplina, costanza. Sanno benissimo di stare affrontando un percorso altamente selettivo. Ma non hanno la misura della sovrabbondanza di aspiranti musicisti rispetto alle posizioni disponibili. I talent show, ad esempio, mostrano solo le fasi apicali dei meccanismi di selezione. Tuttavia, la base della piramide (il numero assoluto di coloro che partecipano) è talmente ampia da rendere inverosimile qualunque discorso meritocratico: è evidente, dati i numeri, che gran parte della selezione avviene tra «egualmente meritevoli» . E che l’insuccesso è, per ragioni statistiche, l’eventualità più probabile anche per il migliore degli aspiranti musicisti.
I corsi di «Music Business» offrono competenze, strumenti e strategie per l’auto-imprenditorialità, per maturare conoscenze e competenze utili per lanciarsi — con tutti i rischi connessi — nel mercato musicale in termini di merci e servizi. Che è cosa diversa dal conoscere il mercato del lavoro nel settore musicale. I rischi ai quali vengono preparati sono rischi d’impresa. E il refrain che accompagna tutti i discorsi rivolti a questi giovani — nei percorsi formativi come nella cultura diffusa, nei mass media come nella promozione dei prodotti per migliorare le proprie skills manageriali — è sempre lo stesso: se davvero hai un talento (e tutti pensano di averne uno, anche se nessuno sa cosa sia il talento) prima o poi, con la giusta costanza e dedizione, riuscirai a realizzarti.
Tutto ciò ha un effetto depressivo e scoraggiante su molti giovani. Dopo aver investito anni della propria vita e tutte le risorse economiche personali e famigliari nella costruzione di una carriera musicale da professionisti, vivono l’insuccesso come fallimento personale generalizzato. «Se non ce l’ho fatta entro i trent’anni, significa che non sono adatto a questo mestiere» è una delle frasi più frequenti nei colloqui di riorientamento. Insomma, se non riescono a diventare musicisti di professione abbandonano definitivamente l’idea. E spesso, ahimè, smettono del tutto di suonare.
Forse sarebbe opportuno favorire una diversa comprensione del mondo della musica contemporaneo, anche dal punto di vista professionale. La produzione musicale oggi, a tutti i livelli, non è più caratterizzata da una netta distinzione tra «professionisti» e «amatori». Questi ultimi sono cresciuti in maniera smisurata, tanto sul piano quantitativo quanto su quello qualitativo. Inoltre vi è molta fluidità e sovrapposizione tra queste due figure. Se si escludono i grandi eventi, il 90% delle persone che in questo momento si stanno esibendo su un palcoscenico non sono musicisti di professione. Alcuni lo sono stati in passato per un breve periodo. Altri magari lo diventeranno in futuro. Ma, in questo momento, non è la loro attività lavorativa principale.
Definirli «amatori» o peggio ancora «doppiolavoristi» riflette una visione obsoleta, anacronistica del settore musicale. Al contrario, nella maggior parte dei casi muoversi lungo un doppio binario — vale a dire coltivare parallelamente una seconda traiettoria formativa e professionale qualificata, non un lavoretto temporaneo “d’appoggio” — è la scelta migliore per poter continuare a perseguire una carriera musicale. Non tanto per avere un “paracadute”, ma per continuare a fare della musica una parte importante della propria esistenza. Se poi arriva il successo, tanto meglio. Nel frattempo però, se vuoi fare il musicista, trovati un lavoro.