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#workinprogress: per salvare l’economia, forse gli uomini dovrebbero cambiare i pannolini

Articolo. Da qualche settimana si sente ripetere con toni entusiastici la seguente affermazione: «+513mila occupati nel primo trimestre 2023!». Oltre a travisare il dato che cita, questo tipo di comunicazione distoglie però l’attenzione dalle criticità reali del mercato del lavoro. Una tra tutte, l’inverno demografico, responsabile di una crescente scarsità di forza lavoro in aree e settori chiave. Una soluzione? L’aumento dell’occupazione femminile

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(Illustrazione venimo)

Chi, come me, si occupa di sociologia dei processi economici, soffre più di altri l’utilizzo improprio, spesso a fini propagandistici o sensazionalistici, dei dati relativi al mercato del lavoro da parte dei mass media o della classe politica. Non tanto, o non solo, per la disinformazione che può derivarne, quanto perché diseducativo per l’intera popolazione. Estrapolare dei dati, senza alcun criterio metodologico, per usarli come armi da battaglia nel dibattito pubblico non favorisce, anzi ostacola, la maturazione di una comprensione più ampia possibile della complessità dei procedimenti scientifici. La stagione pandemica ci ha mostrato, in modo drammatico, come l’assenza di una diffusa cultura scientifica di base può avere conseguenze catastrofiche.

Da qualche settimana, ad esempio, si sente ripetere con toni entusiastici la seguente affermazione: «+513mila occupati nel primo trimestre 2023!». Alcuni commentatori, addirittura, attribuiscono, contro ogni logica temporale e tecnica, tale incremento all’insediamento del nuovo governo in autunno (omettendo, non importa se consapevolmente o meno, che l’aumento occupazionale di cui parlano è rapportato al primo trimestre 2022, dunque si muove entro un lasso temporale ben più ampio). Uno slogan di questo tipo, non accompagnato da alcuna precisazione, rischia di essere mistificante. Di nascondere, più che illuminare, la situazione attuale del mercato del lavoro.

Innanzitutto perché abusa e travisa il dato occupazionale che cita. Basta leggere il rapporto Istat da cui è ricavato per svelare il trucchetto comunicativo: «nel primo trimestre 2023 gli occupati sono cresciuti di oltre mezzo milione (+513 mila, + 2,3% rispetto al primo trimestre 2022), ed è l’ottavo trimestre consecutivo che si osserva un aumento tendenziale dell’occupazione. La fase di ripresa dell’occupazione, dopo il brusco calo generato dagli effetti della pandemia, è infatti iniziata nel secondo trimestre 2021 (con una crescita pari al 2,2%), è proseguita a ritmi sostenuti tra il terzo 2021 e il secondo trimestre del 2022 (arrivando al 4,1% nel primo 2022), è rallentata nel terzo e quarto trimestre 2022 (non superando l’1,5%), per tornare al 2,3% nel primo trimestre 2023». È chiaro a chiunque che l’andamento qui descritto non ha nulla a che vedere con l’insediamento del governo Meloni, ma che riflette altri processi. È come se Mario Draghi si fosse attribuito il merito del punto più alto di tale andamento, ossia il rimbalzo post-pandemico del primo trimestre 2022 (+ 4.1% contro un + 2.3%).

La seconda ragione per cui tale comunicazione propagandistica è particolarmente mistificante è che distoglie l’attenzione da una serie di criticità importanti, segnalate dal rapporto Istat, con le quali è imprescindibile confrontarsi per affrontare i prossimi anni. Prima fra tutti il problema del cosiddetto « inverno demografico » che sta determinando una crescente scarsità di forza lavoro in aree e settori chiave. A Bergamo la disoccupazione giovanile è già scesa sotto il tasso fisiologico (3%).

La risposta del governo alla progressiva riduzione della popolazione attiva — che in un futuro molto prossimo metterà a repentaglio la tenuta economica dei sistemi previdenziali e assistenziali oltre che di alcuni tessuti produttivi — è sostanzialmente quella di promuovere la natalità. Una proposta forse efficace sul piano comunicativo, ma poco realistica, per diverse ragioni. Anche ipotizzando, per assurdo, una crescita immediata della natalità, tale crescita non avrebbe alcun effetto sul problema dato che, secondo le proiezioni, già nel 2030 mancheranno 2 milioni di lavoratori. A meno che non si riesca a far nascere figli già ventenni e diplomati.

Una seconda soluzione è quella di aumentare i flussi migratori in entrata. Anche tale soluzione, per quanto necessaria, può soddisfare solo parzialmente la domanda di forza lavoro, soprattutto di quella qualificata, come abbiamo spiegato in un altro articolo qualche mese fa.

Vi è però una terza soluzione, che potrebbe sortire risultati in tempi più brevi: l’aumento dell’occupazione femminile. Come si può leggere nel già citato rapporto Istat, in Italia, a fronte di un tasso di occupazione maschile del 70%, quello femminile si ferma al 51%. Un dato che scende addirittura al 35,5% nelle regioni del Sud. Insomma, stiamo parlando di ampi margini di recupero.

Aumentare la partecipazione delle donne nel mercato del lavoro italiano significa attingere a un bacino di forza lavoro — con livelli medio-alti d’istruzione — già presente sul territorio ma attualmente sottoutilizzata. Affinché ciò avvenga servono una serie di interventi legislativi in favore delle pari opportunità, che contrastino la penalizzazione di genere nel mercato, e un aumento della spesa per il welfare per incrementare, innanzitutto, l’offerta pubblica di servizi per l’infanzia. Costruire nidi comunali, ad esempio, è molto più efficace di qualunque bonus babysitter. Lo stesso discorso vale per l’assistenza ai familiari con fragilità di vario genere. Quasi sempre, in Italia, la deospedalizzazione degli anziani è stata attuata rovesciando un enorme carico di lavoro sulle donne.

Serve un’intenzione politica e la consapevolezza, da parte del mondo delle imprese, che favorire la conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro è una politica economica essenziale che va nel loro interesse, anche se comporta un maggiore carico fiscale. Sono soldi spesi bene.

Ma l’attivazione di Stato e imprese non è sufficiente. È necessario anche un cambiamento culturale nelle abitudini sociali e di vita della popolazione maschile. Secondo i dati Istat, le donne italiane hanno il primato europeo per quantità di tempo speso in attività domestiche e di cura. Sei ore al giorno, in media, mentre gli uomini si attestano appena sotto le due ore al giorno, come avevamo già ricordato in questo articolo.

Senza una riduzione sostanziale di questo divario nella distribuzione del lavoro domestico, gli interventi di cui sopra rischiano di ottenere risultati molto inferiori a quelli attesi in termini di partecipazione delle donne al mercato del lavoro. In sintesi, se si vuole salvare l’economia, gli uomini devo mettersi a pulir casa, far lavatrici, accompagnare figli a scuola, assistere familiari e anziani. Solo per fare qualche esempio.

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