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#workinprogress: non chiediamoci chi sono i “giovani di oggi”, ma cosa fanno e dove lavorano

Articolo. Il mondo del lavoro giovanile è complesso e variegato. Se vogliamo capire le condizioni di vita e di lavoro delle nuove generazioni, dobbiamo lasciar da parte qualunque ingenua discussione morale, psicologica o culturale riguardo i giovani come fossero un gruppo omogeneo

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Tutti noi, ogni giorno, esprimiamo opinioni riguardo fenomeni sociali che non conosciamo. Non per presunzione e nemmeno per pigrizia nel reperire informazioni, ma perché siamo continuamente sollecitati — innanzitutto dai social network, poi dai mass-media che ormai non fanno che rincorrerli — a commentare, a dire la nostra in tempi rapidissimi, che non lasciano spazio all’analisi e all’approfondimento. Un esempio eloquente è l’eterno dibattito sui cosiddetti «giovani».

Se interpellati sul tema, siamo sempre pronti a offrire giudizi morali, valutazioni psicologiche o addirittura antropologiche sugli usi e i costumi delle nuove generazioni. Ma se ci chiedessero di definire l’oggetto del nostro discorso — chi sono i giovani? Di quale segmento sociale stiamo parlando? — ci ingarbuglieremmo subito, senza riuscire a dare una definizione univoca, chiara e condivisa. Anche perché tale definizione non esiste nemmeno nelle scienze sociali, figuriamoci nel senso comune.

«Tutti siamo stati giovani nella vita» è un’esclamazione molto comune. Si usa solitamente per esprimere nostalgia per la propria gioventù o indulgenza nei confronti di quella contemporanea. Nonostante la sua efficacia comunicativa (tutti capiscono a cosa ci riferiamo quando la utilizziamo), si tratta di un’affermazione falsa dal punto di vista empirico. Non è vero che siamo stati tutti giovani. Al contrario, “essere giovani” è un’esperienza storicamente recentissima, per giunta riservata solo a un segmento della popolazione mondiale. È tutto fuorché universale. Non esisteva in passato. Nelle società preindustriali si passava dall’infanzia all’aratro senza alcuna specifica fase intermedia, come accade ancora oggi in molte aree del pianeta. Insomma, non tutti — anzi, pochissimi — sono stati giovani in passato e anche nel presente tantissimi “adulti” non sono mai stati giovani e altrettanti bambini non lo saranno in futuro.

La giovinezza non è una condizione anagrafica o biosomatica, bensì storica, geografica ed economica. È una fase del ciclo di vita la cui estensione temporale cresce man mano che si salgono i gradini della scala sociale, sia a livello globale che all’interno di ogni singolo paese. Inoltre, tanto più si estende, tanto più si complessifica dal punto di vista qualitativo. La possibilità di dedicare maggior tempo alla propria formazione, generale o professionale, aumenta gli spazi di autodeterminazione individuale e dunque l’eterogeneità delle scelte e dei percorsi. Anche per questa ragione è sempre mistificante lanciarsi in speculazioni sociologiche, psicologiche, culturali o morali riguardo i giovani come fossero un gruppo omogeneo. Le differenze interne superano di gran lunga le analogie, nella vita sociale come nel mondo del lavoro. Sono davvero pochi, ma non per questo irrilevanti, gli elementi che accomunano le persone tra i 19 e i 34 anni.

Cosa sappiamo dunque del complesso e variegato mondo del lavoro giovanile?

Innanzitutto vi è un quadro generale, demografico e occupazionale, specifico della realtà italiana entro cui dobbiamo situare il nostro discorso. Il nostro paese infatti è, a livello europeo, quello con la quota più bassa di giovani sul totale degli occupati (33% contro il 40% della media europea).

Come segnalava qualche mese fa l’economista Luisa Rosti , questa scarsa presenza di giovani tra gli occupati «non può essere solo una conseguenza della struttura demografica della popolazione perché, ad esempio, la Germania, pur avendo un’età mediana simile a quella italiana, ha una quota di giovani che supera la nostra di ben otto punti percentuali (41% contro 33%). E non può neppure essere determinata dalla lunga durata dei percorsi formativi, perché l’Italia ha una quota di laureati tra le più basse d’Europa: 20% contro il 29% della media europea (nella classe d’età 15-29 anni)». Inoltre siamo il Paese europeo con il numero più alto di giovani che non studiano e non lavorano. I cosiddetti NEET rappresentano il 25% della popolazione giovanile in età da lavoro.

Dove sono impiegati invece i giovani che lavorano?

Anche qui ci troviamo di fronte una realtà molto variegata che contraddice tanti degli stereotipi diffusi sul mercato del lavoro giovanile. I mass-media ci indicano continuamente come rappresentative figure professionali la cui centralità è meramente simbolica e mediatica. Qualche anno fa sembrava che la maggior parte dei giovani lavorasse nei call-center. Poi è stata la volta dei riders . E via dicendo.

In questo modo si comprende ben poco della condizione lavorativa delle nuove generazioni. I riders in Italia, ad esempio, sono circa 60.000, mentre i giovani attualmente impiegati nel manifatturiero sono 1.111.000 (dal 2019 al 2023 sono pure aumentati del 3.4%).

Eppure, nei dibattiti sui giovani, non sentiamo quasi mai parlare di operai industriali. È come se un diciannovenne, nel momento in cui entra in fabbrica, smettesse di essere percepito come giovane.
Peraltro il numero elevato di giovani nel settore manifatturiero non dipende dalle aspettative e dalle aspirazioni di questi ultimi. Al contrario, una recente ricerca del centro studi di Assolombarda svolta su un campione di 1000 ragazzi tra i 18 e i 26 anni residenti nelle province di Milano, Monza e Brianza (un’area ad altissima concentrazione industriale), ha rilevato che solo il 15% degli intervistati considera l’industria un settore trainante e affascinante, mentre il 57% immagina un futuro da libero professionista o da piccolo imprenditore nell’ambito dei servizi, della comunicazione o della finanza.

Che ci fanno allora tutti questi giovani nelle fabbriche?

La risposta è piuttosto banale: il mercato del lavoro giovanile non lo disegnano i giovani. Le loro ambizioni non incidono sulla struttura occupazionale o sulla composizione del tessuto produttivo. Le nuove generazioni si inseriscono entro le coordinate dettate dalle politiche industriali, economiche e sociali del territorio in cui vivono. E dagli eventi storici. Tra il 2019 e il 2023, ad esempio, abbiamo registrato nel mercato del lavoro giovanile un fenomeno — accidentale e transitorio — in netta controtendenza rispetto agli andamenti di lungo periodo, ovvero l’aumento temporaneo dell’occupazione giovanile nell’edilizia (60.000 occupati in più). Tale aumento — che non riflette alcuna “riscoperta” della ricchezza del lavoro in cantiere, infatti si sta già riassorbendo — è stato condizionato dal crollo della componente straniera in quella fascia d’età a causa del blocco delle migrazioni durante la pandemia. In tre anni vi è stata una riduzione del 9.1% dei lavoratori stranieri che ha generato un bisogno emergenziale di reperire forza lavoro autoctona nei settori ad alta incidenza di lavoro immigrato.

In sintesi, se vogliamo capire le condizioni di vita e di lavoro delle nuove generazioni, dobbiamo lasciar da parte qualunque ingenua discussione morale, psicologica o culturale, sui “giovani d’oggi”. Anziché chiederci “come sono fatti”, dovremmo osservare “cosa stanno facendo”, “dove stanno lavorando”. I mass-media, spostando l’attenzione sul fantomatico “rapporto tra i giovani e il lavoro”, non sono d’aiuto nella comprensione della realtà materiale. Anzi, spesso trasfigurano i contorni stessi della questione — che non è generazionale, ma politica, economica e sociale — invitando nei talk show lo psicologo, l’influencer, il rapper di turno, il cantante fallito che si lamenta del declino morale ed estetico dei giovani, e accademici pensionati che hanno abbandonato da tempo qualunque rigore metodologico.

Tra l’altro tutte queste persone, proprio mentre denunciano la scarsa voglia di lavorare o le eccessive ambizioni delle nuove generazioni, ignorano il fatto che gran parte dei vestiti che indossano, degli smartphone che hanno in tasca, dei microfoni e delle videocamere che li registrano, e via dicendo… non cadono dal cielo, ma sono merci prodotte da una forza lavoro globale anagraficamente giovanissima, che include una quota ancora molto elevata di lavoro minorile.

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