Nel 2020, in seguito all’accresciuta domanda di cibo a domicilio nella prima fase della pandemia, i rider hanno conquistato improvvisamente un grande visibilità sociale e mediatica anche in Italia. Quella che prima era una realtà circoscritta alle grandi aree metropolitane è entrata a far parte dell’esperienza quotidiana della maggioranza della popolazione, fino a diventare una figura emblematica del lavoro dequalificato nell’era della Gig Economy e del cosiddetto “capitalismo delle piattaforme”.
Un tratto problematico e inquietante di questa stagione di accelerata modernizzazione — dove la combinazione tra innovazione tecnologica e riorganizzazione della produzione/distribuzione di beni e servizi ha prodotto un serie di bruschi salti in avanti — è la natura contraddittoria del suo sviluppo, il suo lato oscuro: uno dei settori più avanzati dell’economia contemporanea si affermato grazie ad una infrastruttura distributiva tutt’altro che moderna. La diffusione su ampia scala di queste nuove forme di consumo on-demand è stata resa possibile dalla drastica riduzione dei costi di consegna. Oggi ordinare a domicilio un Big Mac Menu costa solo tre euro in più. Alcuni supermercati garantiscono il mantenimento dei prezzi a scaffale. E se si supera la soglia dei 30€, la consegna è gratuita.
Tale compressione dei costi della logistica non è, se non in minima parte, risultato di innovazione tecnologica, bensì dell’impiego massiccio di forza lavoro a bassissimo costo con tutele scarse o nulle. Le coordinate sociali ed economiche dei rider sono note a tutti: da un lato abbiamo un segmento minoritario, composto da studenti e giovani lavoratori che cercano un’occupazione a tempo parziale o un’opportunità di guadagno extra, dall’altro una massa di lavoratori stranieri.
La progressiva deregolamentazione e precarizzazione dei rapporti di lavoro a cui abbiamo assistito negli ultimi venticinque anni ha creato un’enorme zona grigia, dove la distanza tra forma (ciò che appare nella definizione giuridica dei rapporti di lavoro) e sostanza (la realtà materiale del lavoro) è sempre più ampia. È proprio questa zona grigia a permettere lo sfruttamento intensivo dei lavoratori digitali nella Gig Economy, primi fra tutti i rider. Un esempio su tutti: gran parte dei rider di origine straniera figurano come lavoratori autonomi. Ma ciò che appare giuridicamente come “imprenditoria emergente” nasconde una realtà ben diversa, ossia un nuovo fenomeno di caporalato etnico digitale. Si tratta del cosiddetto App Renting: un lavoratore straniero regolare, una volta divenuto titolare di un account del food delivery, lo “affitta” ad altri lavoratori, principalmente immigrati irregolari.
È questa la ragione per cui, se iniziate a fare caso alle informazioni presenti sul vostro smartphone, noterete che persone diverse si presentano alla vostra porta con lo stesso nome. Per una conoscenza più dettagliata di questo e altri fenomeni che caratterizzano il mondo dei rider rimando all’ottimo lavoro di ricerca sul campo svolto dal sociologo Cosmin Popan .
Gli accordi europei
Il lungo e faticoso processo politico di regolamentazione dei rapporti di lavoro nel capitalismo delle piattaforme aveva registrato di recente un significativo passo in avanti. A dicembre 2023, infatti, si era raggiunto un accordo su un disegno di legge tra i negoziatori del Parlamento e del Consiglio Europeo che, come scriveva Roberto Ciccarelli, «smaschera il falso lavoro autonomo e riconosce l’attività subordinata svolta dai lavoratori digitali, a partire dai rider. E, per la prima volta da quando è nato il capitalismo di piattaforma, si potrebbe arrivare a regolare gli algoritmi, possibilità fino ad oggi negata dalle aziende ai sindacati. Infine, i lavoratori potranno ricorrere in tribunale e ottenere giustizia a partire da una base giuridica più definita».
L’accordo è purtroppo saltato poco dopo, per l’opposizione di 12 paesi membri tra cui l’Italia. Tuttavia, settimana scorsa si è raggiunto un nuovo compromesso (al ribasso). Resta la presunzione di lavoro subordinato e l’inversione dell’onere della prova «nel momento in cui un lavoratore, i suoi rappresentanti o le autorità competenti faranno valere la presunzione di lavoro subordinato, toccherà ai datori di lavoro, alle piattaforme, dover raccogliere le prove per dimostrare che un lavoratore è veramente autonomo. Non il contrario, come è stato finora». Così come anche nel nuovo accordo viene confermato l’accesso, per i lavoratori digitali e le loro rappresentanze, alle informazioni sul funzionamento degli algoritmi.
La debolezza principale di questo nuovo compromesso, rispetto al precedente, consiste nel fatto che, anziché stabilire criteri armonizzati a livello europeo, ne demanda l’attuazione ai singoli Stati secondo le diverse normative nazionali e i contratti collettivi vigenti. Vedremo dunque come si comporteranno i Paesi membri nei prossimi mesi. Secondo alcune proiezioni, la realizzazione effettiva delle indicazioni contenute nell’accordo europeo potrebbe costare alle compagnie che gestiscono le piattaforme (Deliveroo, Uber Eats, Just Eat, ecc.) fino a 4,5 miliardi di euro, il che rappresenterebbe un buon risultato. Non stiamo parlando infatti di una “perdita”, come hanno scritto molti giornali, ma del recupero da parte dei rider di una parte dei profitti generati dal loro stesso lavoro.
Gli effetti dell’automazione
Ridurre il più possibile la vulnerabilità dei 30 milioni di lavoratori che attualmente in Europa svolgono queste attività è sicuramente la battaglia più importante nel breve periodo. Anche alla luce del fatto che l’Unione Europea stima che raggiungeranno quota 43 milioni nel 2025. Ma è solo una faccia della medaglia. L’obiettivo di medio periodo deve essere quello di invertire questa crescita. Perché la vera sfida sociale, economica e civile deve essere quella di eliminare definitivamente il mestiere del rider.
La forza lavoro giovanile, italiana e straniera, è la nostra risorsa più preziosa e lo sarà sempre di più alla luce della contrazione demografica in atto e al conseguente invecchiamento della popolazione. Utilizzarla per svolgere un’attività pericolosa, logorante, senza senso e senza prospettiva è uno scempio intollerabile e dannoso per la collettività. È inutile girarci attorno: nell’epoca della tanto decantata rivoluzione digitale stiamo usando spesso i giovani come bestie da soma. Accade sotto i nostri occhi ed è all’origine di quella sensazione di imbarazzo che proviamo ogni qualvolta incrociamo lo sguardo del rider fradicio, con la bici scassata e lo zaino rattoppato col nastro adesivo, mentre ci consegna la nostra cena orientale, mostrandosi sempre e comunque gentile e ossequioso perché le mance sono una quota vitale del suo compenso.
Servono a poco o a nulla l’indignazione dei consumatori sensibili, gli slanci etici di qualche azienda o le denunce sociali del giornalismo d’inchiesta. L’unica soluzione reale risiede nell’automazione, nel giungere il più presto possibile alla sostituzione dei rider con robot e droni, un’alternativa sicura ed efficiente alle tradizionali consegne a domicilio e che contribuirebbe anche a ridurre significativamente le emissioni di CO2 rispetto al sistema di distribuzione attuale. Stiamo parlando di tecnologie già esistenti. Bisogna solo investire per accelerarne il perfezionamento tecnico e la regolamentazione giuridica.
Tecnofobia e luddismo sono tra i migliori alleati dello stato di cose presenti. Come sempre nella storia del lavoro, il problema non è il progresso tecnico in sé. La tecnologia non è mai una causa primaria. Le conseguenze sociali di ogni innovazione dipendono dalle finalità e dal potere relativo dei soggetti sociali ed economici — pubblici e privati — che ne orientano l’utilizzo e lo sviluppo. Gli effetti dell’automazione, ad esempio, dipendono da come viene governata politicamente. Può generare grandi sacche di disoccupazione tecnologica, oppure maggior benessere collettivo, elevazione professionale e una ridistribuzione più equa del lavoro sociale complessivo necessario alla nostra riproduzione. Ricordiamoci che, nella storia moderna, la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, come la possibilità materiale di ritardare l’ingresso nel mercato del lavoro accrescendo il proprio livello di istruzione, hanno sempre rappresentato un grande avanzamento in termini di progresso sociale, culturale e civile.
Per una maggiore regolamentazione del mercato del lavoro
Sappiamo da tempo che la deregolamentazione dei rapporti di lavoro disincentiva le innovazioni. Se un’impresa può ottenere profitti mediante l’uso flessibile della forza-lavoro, comprimendo i salari e i costi connessi alla tutela dei diritti dei lavoratori, non ha alcuna convenienza a utilizzare ingenti risorse per finanziare attività di ricerca e sviluppo; le quali, peraltro, danno risultati di lungo periodo, difficilmente compatibili con ritmi di competizione – su scala globale – sempre più accelerati. Ma la compressione delle innovazioni riduce il tasso di crescita e, di conseguenza, l’ammontare di prodotto sociale destinato al lavoro dipendente.
Favorire la sindacalizzazione dei rider e una sempre maggiore regolamentazione del mercato del lavoro, dunque, non migliora solo le condizioni di vita di queste persone, ma ha un effetto propulsivo per l’innovazione. La loro lunga battaglia porterà solo benefici all’intera società. E si concluderà, speriamo presto, con l’estinzione di questo lavoro.
So che, in un’epoca dove non è infrequente imbattersi nell’esaltazione di professioni e mestieri del passato come un patrimonio da salvare, ciò che scrivo può risultare insolito, contro-intuitivo. Per questa ragione vi invito a leggere e a conservare come promemoria, anziché le mie parole, quelle di una figura importantissima del nostro Novecento, ovvero Gianni Rodari, che riusciva in modo semplice e chiaro a racchiudere e sintetizzare contenuti complessi e riflessioni articolate in una filastrocca di poche righe:
Il monumento
Ho saputo che a Tokio in un vecchio monastero
hanno messo un monumento, ma strano per davvero.
È dedicato, dicono, a tre bravi signori
che del fin-riki-sha furono gli inventori.
Questo fin-riki-sha sarebbe poi il riksciò.
Ne sapete come prima? Ve lo descriverò:
È una specie di carrozzino che porta a spasso la gente,
per andare va svelto, è comodo, solamente...
C’è tra le stanghe, al posto del cavallo o del somarello,
un uomo, un uomo vero, e questo non è bello.
Era il caso di fare un monumento agli scaltri
che hanno inventato la fatica degli altri?
In conclusione io trovo, dopo averci ben pensato,
che certi monumenti sono marmo sprecato.
(Gianni Rodari)