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#workinprogress: crisi di governo e lavoro, quali nodi rimangono aperti?

Articolo. Disoccupazione generale e disoccupazione giovanile, mismatch, apprendistato, stage, salari, lavoro nero, Reddito di Cittadinanza: sono solo alcune delle questioni legate al lavoro che Parti sociali e (nuovo) governo dovranno affrontare con uno sforzo corale

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(Master1305)

La recente crisi di governo è arrivata inaspettata tanto quanto un temporale d’estate in piena siccità. Anche se, a dirla tutta, il cielo aveva iniziato ad imbrunire già da qualche settimana a seguito delle costanti fibrillazioni all’interno della maggioranza guidata dal premier Draghi

Tra i tanti dossier che sono rimasti sul tavolo vi è anche quello del lavoro, che vede il caso italiano in preda a profonde criticità. I principali indicatori dell’Istat dicono infatti di un elevato tasso di disoccupazione generale (9,7%), persone che non sono occupate ma cercano lavoro, e di un elevato tasso di inattività 35,5%, persone che non sono occupate e non cercano lavoro.

Non da ultimo, il nostro paese soffre paradossalmente di un ampio mismatch di competenze (secondo le ultime rilevazioni a quota 32%) tra quelle che vengono formate durante gli studi e quelle realmente richieste dalle imprese nel mercato del lavoro. La ciliegina sulla torta, come evidenziato dall’Osservatorio sui conti pubblici italiani, è però rappresentata dall’invecchiamento demografico che porterà la nostra forza lavoro a perdere nei prossimi decenni circa 200 mila persone all’anno. Insomma, un quadro della situazione che sembra tenere insieme l’angoscia simbolica del grido di Munch e la confusione delle graffianti pennellate di Pollock.

Tra i grandi temi in sospeso per via della crisi vi è sicuramente la condizione occupazionale dei giovani, la drammatica diffusione del lavoro povero e del lavoro irregolare, il funzionamento del nostro mercato del lavoro e del sistema di politiche attive e, l’evergreen per eccellenza, il tema delle pensioni.

Per dare l’idea della gravità della situazione basta riportare il tasso di disoccupazione giovanile e il tasso di Neet nel nostro paese, ossia di quella quota di giovani che non studiano e non lavorano, pari rispettivamente al 22.3% e al 23.1% (15-29 anni). Gli effetti di questi numeri si ripercuotono inevitabilmente sul tempo che impiegano i giovani ad inserirsi nel mercato del lavoro una volta conclusi gli studi, tra i più lunghi d’Europa.

Per farla breve, ciò significa che occorre più tempo per mettere su famiglia e più tempo per intraprendere un percorso di carriera chiaro, stabile e tutelato. Come è noto, in molti casi i giovani passano da uno stage all’altro (In Italia, dal 2014 al 2019, siamo arrivati a quasi 2 milioni) che spesso e volentieri rappresentano per le imprese uno strumento di ricambio di lavoro a basso costo. Per invertire la rotta occorrerebbe intervenire sulla promozione dell’apprendistato, un vero e proprio contratto di lavoro ad alto contenuto formativo, utile ad acquisire una qualificazione professionale o un titolo di studio (nel caso dell’apprendistato duale svolto in collaborazione tra impresa e ente formativo).

Tra i temi più roventi vi è anche quello dei salari e del lavoro nero. Già bacchettati dall’OCSE, che ha certificato come l’Italia, insieme a Spagna e Grecia, sia tra i paesi che nell’ultimo ventennio ha visto ridursi il potere di acquisto dei propri residenti, il governo e le parti sociali si sono mossi (e si stanno muovendo: vedi il Decreto aiuti-bis) a supporto di famiglie e lavoratori. Anche la Direttiva europea sul salario minimo, pur non intervenendo in modo impositivo sullo strumento da adoperare (contrattazione collettiva o legge), ha spinto i paesi membri ad adottare misure più chiare e stringenti per garantire una retribuzione dignitosa per tutti al fine di combattere il lavoro povero. Vi sono poi diverse ipotesi di intervento sul cuneo fiscale del lavoro (differenza tra lo stipendio lordo e la busta paga netta ricevuta dal lavoratore) e la possibilità di estendere la copertura dei contratti nazionali firmati dalle sigle sindacali più rappresentative a tutti i lavoratori, con l’obiettivo di mettere fuori gioco la contrattazione pirata e chi non offre tutele contrattuali. Vedremo.

Ad impattare sui salari vi è anche il lavoro nero. Secondo uno studio dell’ISTAT, nel 2019 l’economia sommersa e illegale valeva 203 miliardi di euro, pari all’11,3% del Pil nazionale. Guardando alla dimensione occupazionale, un’indagine di Confartigianato ha invece stimato in 3,2 milioni i lavoratori irregolari e gli operatori abusivi che popolano il sommerso, un vero e proprio mondo parallelo a cui occorre mettere fine.

Tanto dell’irregolarità del lavoro è anche causa dell’inefficienza dei servizi per il lavoro che non aiutano le imprese e i lavoratori a fare il matching tra domanda e offerta. Un sistema eccessivamente orientato sul monopolio pubblico dei servizi ha infatti portato all’ingolfo dei centri pubblici per l’impiego senza che alle persone venissero offerte reali opportunità di uscita da uno stato di disagio. A questo riguardo, i numeri del Reddito di Cittadinanza , che nei primi tre anni della misura (disponibile da aprile 2019) ha riguardato 2,2 milioni di famiglie (quasi il 9% delle famiglie italiane) e circa 4,8 milioni di persone, mostrano che su 100 percettori, 14,6 non sono mai stati occupati, 24,9 hanno avuto un lavoro, ma prima del 2017, e solo 18,7 hanno lavorato recentemente. Queste cifre mettono in evidenza la difficoltà ad intendere la misura, che pure si è rivelata un argine sociale importante durante la pandemia, come finalizzata all’inserimento o al reinserimento lavorativo (e anche in questo senso il nuovo governo dovrà lavorare, sempre che dai vincitori delle prossime politiche il RdC non venga abolito del tutto).

Per tornare ai giovani, tutti i principali interventi di politica attiva adottati per favorire la loro transizione nel mercato del lavoro si sono rivelati fallimentari o non pienamente soddisfacenti. Un caso esemplare è il programma europeo della «Garanzia Giovani», che aveva l’obiettivo di far sì che ogni giovane tra i 15-29 anni avesse la possibilità di inserirsi nel mercato del lavoro o di partecipare a un percorso di istruzione e formazione. Pur con buoni intenti, il fallimento della misura è stato certificato dal fatto che i finanziamenti sono prevalentemente serviti per attivare quasi 600 mila stage (spesso di bassa qualità) e dalla enorme difficoltà dei servizi per il lavoro pubblici a gestire il piano della Garanzia in modo efficace. Parlando di numeri, dei circa 1 milione e 650 mila giovani che si sono registrati al programma tra maggio 2014 e il 2021 soltanto 768 mila giovani sono arrivati a conclusione del percorso, che nella stragrande maggioranza dei casi si è trattato di un tirocinio senza troppe prospettive occupazionali (soltanto il 16% veniva poi assunto all’interno dell’azienda in cui aveva svolto lo stage).

Non è un tema di cui i giovani (purtroppo) si preoccupano, vista anche la loro situazione attuale, ma anche il tema pensioni ricopre un ruolo centrale in un paese il cui numero di over 65 è quasi il doppio rispetto alla popolazione compresa nella fascia di età 0-14 e che vede il rischio di un ritorno integrale alle regole della Legge Fornero. Come confermato dai documenti istituzionali, la spesa pensionistica è una delle spese più importanti operate dallo stato. Il rapporto tra PIL e spesa pensionistica è passato dal 15,2% nel 2018 al 17% nel 2020 sia per via della crisi economica generata dalla pandemia, sia per via degli effetti delle misure di pensionamento anticipato come «Quota 100».

Una cosa è chiara: lo Stato non potrà più essere il solo punto di riferimento del sistema previdenziale. La quasi impossibile sostenibilità del sistema pensionistico statale è data dal fatto che vi sono sempre meno nascite, la popolazione invecchia sempre di più e la forza lavoro, che paga le pensioni, è ormai da anni in fase di contrazione. La messa in salvo del sistema deve necessariamente passare dalla promozione della previdenza complementare prevista nell’ambito della contrattazione collettiva, che vede però ancora oggi una diffusione troppo bassa (circa il 34% dei lavoratori) soprattutto tra i più giovani.

I temi del lavoro sono tanti e sono complessi. La prospettiva di una legislatura non basta e urge il rinnovamento di un patto sociale che metta al centro l’avvio di una stagione di riforme di lungo periodo, cercando fin da subito di trasmettere sicurezza e dare risposte ai bisogni più impellenti della gente. Il destino del lavoro in Italia è duro da cambiare, ma non è irreversibile. Parti sociali e (nuovo) governo dovranno mettere in campo uno sforzo corale. Sui punti da cui partire, d’altronde, hanno soltanto l’imbarazzo della scelta.

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