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Vannacci, Egonu e il senso autentico di «italianità»

Articolo. Le parole dell’eurodeputato Roberto Vannacci a riguardo di Paola Egonu appaiono provocatorie. Ma ha senso parlare di tratti somatici «italiani»?

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Avete presente quell’amico che, in un momento di festa e di contentezza, si sente in dovere di dire la sua e parlare a sproposito? Un atteggiamento, questo, dettato dalla passione per la polemica a tutti i costi o forse, semplicemente, dall’urgenza di sfogare chissà quale forma di rancore o di frustrazione personale. Ecco, il generale Roberto Vannacci, qualche settimana fa, mi ha ricordato proprio questo amico. Il motivo? L’esternazione espressa nei confronti di Paola Egonu ( «I suoi tratti non sono italiani» ), pronunciata, fra l’altro, in un momento di giubilo generale per i cittadini italiani (la vittoria, da parte della nostra nazionale di pallavolo, della medaglia d’oro olimpica). Un’affermazione che stona, quelle dell’eurodeputato, e che, ancor prima che offensiva, giudico provocatoria e inopportuna. Eppure, nonostante la sua ineleganza, questa affermazione ci pone di fronte anche a due interrogativi interessanti: ha senso parlare di «tratti somatici italiani» e, soprattutto, cosa significa, davvero, «italianità»?

L’Italia, coacervo di genti diverse

Per quanto riguarda la prima domanda, la risposta è no. Non è questione di politicamente corretto o di retorica «woke» (alla quale, chi scrive, è decisamente allergico), è semplicemente un dato oggettivo, fattuale. Già in epoca preromana, l’Italia era abitata da popoli differenti , non necessariamente imparentati sul piano linguistico o genetico: penso, ad esempio, ai galli, ai veneti e ai liguri al Nord; agli etruschi, agli umbri e ai latini al Centro; ai sanniti, ai messapi e ai greci al Sud. La caduta di Roma e l’arrivo nella penisola italica di altre civiltà (bizantina, longobarda, araba e normanna, giusto per citarne qualcuna) non ha fatto altro che incrementare questa sorta di «melting pot»: un fenomeno (causato da dinamiche storiche) che, ancora oggi, è riscontrabile nell’aspetto (difforme) degli italiani.

Anche per questo, appare semplificatorio dichiarare, come ha ribadito più volte il generale, che gli italiani «sono di pelle bianca e hanno i tratti somatici tipicamente caucasici» . Certo, nessuno mette in dubbio che i neri siano originari del continente africano e non di quello europeo e che l’Italia non nasca come nazione «nera»: non lo è stata nel medioevo e nemmeno nel 1861, anno della sua unità e della sua proclamazione. Ma è altrettanto vero che anche tra chi possiede tratti «europòidi» ci sono sensibili differenze: lo stesso Vannacci, nato a La Spezia, presenta una fisiognomica che ricorda un po’ quella mediorientale.

La verità è che siamo nel ventunesimo secolo, nell’epoca – piaccia o non piaccia – del globalismo e del multiculturalismo: le persone viaggiano, si incontrano, si innamorano e lo fanno senza curarsi troppo di bandiere e confini. È così importante, quindi, a pochi mesi dall’arrivo del 2025, stare ancora a parlare del colore della pelle di una persona? Mi pare evidente, dunque, come ricondurre l’«italianità» unicamente ai tratti somatici non abbia senso. A maggior ragione, non si può parlare di «etnia italiana»: noi italiani abbiamo una provenienza geografica, una storia e una lingua condivisa, ma, come accennato, non certo delle caratteristiche fisiche comuni (come, per esempio, rivelano gli arabi) né, tanto meno, una tradizione e una religione esclusiva (come possono vantare gli ebrei). Dunque, dove sta l’«italianità» e cosa significa essere italiani?

Ciò che ci unisce, non ciò che ci divide

Al netto della cittadinanza, romanticamente (e retoricamente) mi piacerebbe dire che l’italiano è caratterizzato dall’amore per il bello, per il buon cibo, per le cose ben fatte (e per le cose fatte bene), ma anche da una profonda gioia di vivere, da un certo tipo di umorismo e di ironia, dall’empatia e, nondimeno, da una buona dose di furbizia. Più prosaicamente, direi che italiano è chi parla correttamente la lingua italiana, chi è cresciuto (e ha studiato) in Italia e, possibilmente, chi qui vi lavora e paga le tasse.

E poi c’è anche chi dimostra di amare il nostro Paese e magari, come Paola Egonu (nata a Cittadella), di farlo attraverso la conquista di una medaglia. Da italiano, non potrei che esserne più felice e orgoglioso. Il resto non conta; e come potrebbe a fronte di così tanta gaiezza? Forse, prendendo come ispirazione la vittoria delle nostre pallavoliste, bisognerebbe cominciare a dare valore a ciò che ci unisce, piuttosto a ciò che ci divide. Avere coscienza che la nostra storia (e la nostra società) è stata intessuta da culture e genti diverse non può che rendere più semplice questo cammino. Dopotutto, ne va della nostra sopravvivenza.

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