Nel Centro di Accoglienza Straordinaria (CAS) di via Sudorno, in Città Alta, ci sono 75 ragazzi, in quello di Casa Amedei 34. La maggior parte di loro sono richiedenti asilo e, nell’attesa, vivono una quotidianità scandita dal lavoro, dalle lezioni di italiano e dalle pratiche burocratiche, ma anche dalle relazioni con gli operatori, dalle uscite e dalla musica afro-pop.
«Ho detto a loro che saremmo andati in montagna e quindi di mettersi comodi, ma non c’è stato verso per alcuni. Volevano vestirsi eleganti», commenta Renato Coradi, responsabile del Centro di Accoglienza Straordinaria (CAS) di via Sudorno, in Città Alta, mentre passeggiamo per i sentieri del Canto Alto, una domenica pomeriggio, in compagnia di una ventina di ragazzi. In effetti, nonostante l’intento della giornata fosse di raccogliere le castagne, c’è qualcuno, come Salif, che si è presentato con la giacca, qualcun altro con una decisa quantità di profumo e le scarpe appena pulite. «Per loro, questi sono momenti preziosi e speciali: ci tengono a vestirsi bene», mi spiega Renato.
Ma chi sono questi ragazzi?
Per la maggior parte, provengono dall’Africa subsahariana e sono richiedenti asilo, in attesa cioè di ricevere dalle autorità competenti - in Italia, le Commissioni territoriali - il riconoscimento della protezione internazionale. Nel frattempo alcuni di loro vivono in “Casa Amadei”, in via San Bernardino 77, altri nel centro di via Sudorno, Città Alta: due progetti prefettizi diversi, gestiti entrambi dalla Cooperativa Ruah. Il primo accoglie 34 persone in totale, l’altro 75 (di cui circa la metà proveniente dal Bangladesh, mentre l’altra dall’Africa subshariana; età media di 24 anni). Si tratta di centri aperti per sopperire alla mancanza di posti nelle strutture ordinarie di accoglienza (SAI) che a Bergamo sono 5 in totale. «Due del Comune di Bergamo (uno per adulti e uno per minori stranieri non accompagnati), uno del Comune di Osio Sotto, uno di quello di Levate e infine del Consorzio Servizi Val Cavallina - mi informerà poi Rossana Aceti, esperta in diritto dell’immigrazione e referente dei progetti SAI per il Consorzio Sol.Co Città Aperta - A livello provinciale, nei progetti SAI accogliamo 280 persone». Tuttavia, come succede anche nel resto di Italia, i posti non sono sufficienti per rispondere alla domanda di accoglienza e così si aprono i CAS, Centri di Accoglienza Straordinaria che però, di fatto, costituiscono la modalità “ordinaria” di accoglienza, commenta Aceti.
«Che cosa fanno questi ragazzi nella vita?», chiedo a Renato, osservandoli curiosa. Hanno un’andatura molleggiata, a ritmo di musica, per lo più afro-pop, ascoltata in cuffia o tramite delle mini-casse. Scherzano e ridono, molti in francese. «Il 90% ha un lavoro», risponde lui. Come prevede la legge, infatti, trascorsi 60 giorni dalla formalizzazione della domanda di protezione, la maggior parte comincia a lavorare: chi in fabbrica, chi in magazzino, chi al ristorante. «Molti sono laureati», precisa Renato. «Altri invece hanno deciso di lasciare il lavoro perché temono la revoca dell’accoglienza nel centro», continua Coradi, riferendosi alla decisione del Ministero dell’Interno, comunicata a giugno alle prefetture, di espellere dai CAS i richiedenti asilo lavoratori che hanno un reddito superiore a 6.000 euro, con l’obiettivo, allora, di preparare posti per i migranti che sarebbero arrivati sulle coste italiane nei mesi estivi e avrebbero fatto domanda d’asilo. Una mossa considerata assurda da molti, dato che, in ogni caso, con 6.000 o 10.000 euro - il massimo cioè del guadagno medio di un migrante in attesa di ricevere lo status di rifugiato - è comunque difficile trovare un alloggio e poter vivere, con il rischio anche di trovarsi vittime di ricatti.
Mentre Renato mi spiega questi meccanismi, incontriamo un signore in bici che riconosce subito il gruppo di ragazzi. Ha assunto da poco uno di loro per lavorare come giardiniere: «Brào scèt eh, educato, ma deve muoversi un po’ di più quando lavora. Non ci si può mica sedere!», commenta, un po’ in bergamasco e un po’ in italiano, riferendosi al nuovo arrivato che, a quanto pare, non si sta applicando abbastanza, nonostante la buona volontà. «Glielo dico sempre!» conferma Renato. Un breve scambio, il loro, che però testimonia sia la volontà che la fatica dell’incontro fra due mentalità molto diverse: quella bergamasca e quella di chi proviene da tutt’altro contesto.
«Al lavoro molti imparano la lingua - continua Renato - altri invece vanno proprio a corsi di italiano L2», aggiunge, indicando Marta Palvarini, l’insegnante di italiano, che si era unita alla gita domenicale. Oltre a lei c’erano alcuni operatori del centro come Adriana Lujan Coronel che mi racconta l’importanza di momenti come quello che stavamo vivendo, per nulla scontati per un CAS: «instaurare un legame con questi ragazzi permette di andare oltre ciò che è il lavoro o le pratiche burocratiche… Anzi, entrare nella sfera personale fa capire perché alcune cose del percorso lavorativo non funzionano». Alla domanda su come lei riesca ad entrare in relazione, mi risponde: «Porto tanto della mia esperienza come persona, cerco di trovare delle cose che ci rendono simili. È vero, io ho 23 anni, sono italiana, ma non mi sento così diversa da un ragazzo della mia età arrivato in Italia due anni fa», spiega lei, raccontandomi una quotidianità che avvicina lei ai ragazzi: «Quello che viviamo tutti i giorni è molto simile: andiamo a scuola, impariamo qualcosa, cerchiamo di passare del tempo con i nostri amici, lavorare…Cerco di creare dei legami su ciò che è simile».
Una volta raggiunta la cima del Canto Alto, domando a lei di aiutarmi a interfacciarmi con i ragazzi, a cui, fino ad allora, non avevo ancora chiesto nulla di troppo personale. Il primo ad aprirsi è Tamba, ventiduenne, «100% gambiano», usando le sue parole. Lavora in una fabbrica di saldatura e studia italiano. Nel suo villaggio faceva il contadino, come testimoniano le fotografie che mostra a me e ad Adriana. Mentre ci parla, non toglie le cuffie con cui stava ascoltando la musica; sono un “accessorio” di molti. Provo a chiedergli il motivo per cui ha lasciato la sua Gambia, ma non ricevo risposta. Tamba sorride un po’ imbarazzato e scuote la testa. Non insisto. «Suono la chitarra e vado in palestra» continua lui, a bassa voce, lo sguardo sempre un po’ basso e gentile. Cita poi un suo amico, Mauro, che ha conosciuto grazie al programma «Community Matching» avviato dall’Agenzia ONU per i Rifugiati (UNHCR) insieme a Refugees Welcome Italia e Centro Immigrazione Asilo Cooperazione Internazionale (CIAC ets). Un’iniziativa che promuove un abbinamento (match, appunto), tra persone volontarie - chiamate “buddies” - e rifugiate, per favorire la piena autonomia e l’integrazione di quest’ultime nella vita sociale, economica e culturale delle comunità locali. Un progetto basato quindi sulla forza delle relazioni.
Dopo qualche altra parola, Tamba si alza per scattare delle fotografie al panorama e soprattutto agli altri ragazzi del centro. Mi rivolgo allora a Oumar, un giovane ventinovenne seduto a fianco a me. «Sono a Bergamo da un anno e otto mesi. Prima ero (accolto, ndr) nel Seminario di Città Alta», mi racconta. Dopo aver lavorato come magazziniere, «con il muletto», oggi è impegnato nel «carico e scarico» con la Cooperativa Il Triciclo, l’area della Cooperativa Ruah che unisce finalità sociali ed ecologiche, offrendo inserimento lavorativo in attività di recupero, riciclo e riduzione dei rifiuti.
Vicino si siede anche Lamin «in Italia dal 20 settembre 2023». Vorrebbe stabilizzarsi a Bergamo, ci confida, «in Guinea lavoravo come piastrellista». Nessuno di loro riesce a rispondere alla domanda: «perché sei partito?».
Del resto, sono quasi tutti ragazzi in attesa di ricevere lo status di rifugiato, cioè, secondo la definizione dell’UNHCR : «chiunque, nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato». Si tratta della prima e più importante forma di protezione internazionale che può ricevere un richiedente asilo da uno stato membro della convenzione di Ginevra del 1951. Nel caso in cui, secondo la Commissione territoriale, questi ragazzi non rientrassero nella definizione di “rifugiato”, farebbero comunque richiesta di altre forme di protezione internazionale , come quella sussidiaria o speciale.
Ognuno di loro, insomma, ha una storia dietro che merita fiducia per essere confidata. «L’emersione dei racconti avviene in modo diverso, a seconda della persona - rassicura Adriana - Qualcuno risponde senza problemi perché non ha una grande difficoltà e neanche una storia così terribile, anche se è il viaggio è terribile per tutti. Molte persone sono forti e hanno elaborato ciò che gli è successo. Alcuni non risponderanno mai, altri lo fanno dal nulla dopo tanto tempo. Io non chiedo mai queste cose perché temo di bruciare la relazione. Personalmente mi capita di più di sapere la storia della loro famiglia, lavoro, fratelli, nome del figlio….».
Dopo quelle confidenze, ognuno per quanto poteva e si sentiva, c’è chi ne approfitta per schiacciare un pisolino, chi per fumare, ovviamente con la musica di sottofondo. Nel momento di relax, scorgo anche un giovane, Oumar, mentre canta e balla in stile rap - alternando parole francesi a quelle del suo dialetto d’origine - e si fa filmare da un compagno. Quando gli chiedo una foto, si mette in posa, sorridente, come un vero rapper, ciò che vorrebbe diventare.
Passa un po’ di tempo, finché arriva il momento di tornare a casa: qualcuno deve andare al lavoro. Anche la quotidianità è un diritto da non dare per scontato.