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Tutte le canzoni e il carattere che mia nonna Angela mi ha lasciato

Articolo. L’8 marzo alle 21 al Cineteatro Qoelet di Redona andrà in scena «Capelli d’argento labbra rosse», lo spettacolo teatrale che il team di Eppen, in collaborazione con Bergamo TV e L’Eco di Bergamo, proporrà in occasione della Giornata internazionale della donna. Per accompagnarvi in questo viaggio, che ha coinvolto le anziane ospiti delle case di riposo della nostra provincia, abbiamo chiesto agli autori di Eppen di condividere le storie dei loro nonni e delle loro nonne

Lettura 4 min.
Angela e un’amica in moto

Ricordo distintamente il suono della voce e della risata di mia nonna. Era una donna di straordinaria determinazione, che ha affrontato ogni tappa rispettandosi. Questo è un omaggio alla sua vita, simile a quella di tante donne della sua epoca, vissuta con passione e testardaggine, e al potere della “sua” musica, che l’ha accompagnata in ogni passo.

«Tu sei buono e ti tirano le pietre, sei cattivo e ti tirano le pietre»

26 Gennaio 1967, Sanremo. Sul palco del Festival della canzone italiana si presenta un tale Antoine, esuberante giovane francese divenuto famoso dopo essere stato scoperto per caso dal direttore artistico di «Disque Vogue», etichetta di riferimento dell’epoca nel panorama musicale d’Oltralpe. Antoine viene chiamato a partecipare a Sanremo dal giovane esordiente in gara Gian Pieretti, con cui farà coppia cantando il brano «Pietre». In quei giorni, durante un’intervista per la stampa, Pieretti definisce il collega Antoine «una scelta di ripiego» fatta a seguito del diniego dei ben più noti Bob Dylan e Donovan. Il successo della canzone è inaspettatamente straordinario e Antoine, che sceglie di non rispondere alle dichiarazioni di Pieretti, viene presto considerato star nazionale, passando alla storia come l’autore della canzone.

Maggio 2020, Bergamo, pandemia di Covid-19. Nella stessa stanza in cui ha dormito per sessantaquattro anni, nonna Angela riposa stremata da una lunga malattia, non si alimenta e non si alza dal letto da diversi giorni, tenendo strette le mani delle persone a cui vuole bene. L’unica sua richiesta è stata di avvicinare le casse e non spegnere mai le “sue” canzoni, tra le quali anche «Pietre».

«Nonna, chi canta?» le chiedo di nuovo per tenerla attiva. «Antoine!» mi risponde. «Ah, aveva proprio ragione! Qualsiasi cosa tu faccia, ci sarà sempre qualcuno che giudica. Per questo devi sempre essere a posto con te. Alla mia età… ma quanti anni ho?» mi chiede confusa. «Novanta precisi, nonna» le dico. A me sembrano una conquista, ma lei non è convinta e prosegue il discorso con una piccola licenza: «Ecco, a ottant’anni sai come ci sono arrivata? Facendo sempre come sembrava giusto a me, non agli altri. Adesso però alza un po’ il volume, dai, che noia questi discorsi!».

«Marina, Marina ti voglio al più presto sposar»

Qualche anno prima di quella diciassettesima edizione del Festival di Sanremo, Giovanni (che poi divenne mio nonno) dichiarò il suo amore ad Angela con un mazzolino di gardenie. Disse di volerla sposare perché era sicuro che con lei avrebbe avuto un “avvenire”. Proprio così, non un futuro, ma un avvenire, un compimento di senso in evoluzione. Angela era già trentenne, più vecchia di lui di tre anni. Era una giovane vedova con un figlio a carico e, come se non bastasse, il defunto marito, primo grande amore di nonna, era il fratello di nonno Giovanni. «Non possiamo, cosa penserà la gente?» gli disse lei preoccupata. «Certe persone avranno sempre qualcosa da dire, tu non ci pensare. Se vuoi, costruiremo la nostra casa insieme» le rispose lui. La giovane Angela, riccioli scuri e occhi celeste, acconsentì, a patto che tra le mura di quella futura casa fosse sempre risuonata musica a volume abbastanza alto da coprire pensieri e giudizi esterni.

«Lo sai che i papaveri son alti alti alti e tu sei piccolina»

Angela era nata in un paesino della Valle Seriana, ma aveva cambiato diverse case, spostandosi nei paesi della provincia bergamasca in cui prestava servizio il padre carabiniere. Mise le radici a Treviolo, dove si sposò due volte. La seconda era in un giorno di marzo, Angela indossava un sobrio tailleur riciclato e ricucito da lei stessa. Teneva stretto in braccio il primogenito, nato dal suo primo amore mai dimenticato. Giovanni sfoggiava il suo miglior sorriso giocoso, immancabile accessorio per elevare il metro e sessanta di altezza.

All’esterno della chiesa un piccolo gruppo di compaesani osservava la coppia con disapprovazione, perché una vedova tale doveva restare, se non per tutta la vita, almeno per più di dieci anni. Ma Angela era felice e dopo la cerimonia i neosposi bevvero vino rosso e cantarono all’osteria di Dalmine.

«Ciao amore ciao»

Negli anni successivi Giovanni lasciò il lavoro da mezzadro facendosi assumere per una rinomata impresa di trasporti orobica, la «F.lli Zanoletti». Si abilitò alla guida delle gru, facendo trasferte in tutto il mondo con l’obiettivo di accumulare risparmi per la famiglia. Angela, o «Angelina» come la chiamava lui, si strinse nella sua nuova vita e mise da parte la speranza che le sue scelte fossero approvate da tutti. Ogni mattina in bicicletta cantava a voce alta e pedalava per venti chilometri fino a raggiungere l’azienda di tessitura dove era assunta come operaia. In poco tempo, impiegando ogni minuto libero da gru e telai, Angela e Giovanni costruirono con le loro mani la casa più bella del paese. Non che lo fosse davvero, ovviamente, ma così loro la vedevano.

«Domani è un altro giorno, si vedrà»

Arrivarono i figli e con loro Angela smise di lavorare. Dal mangiadischi arancione uscivano fiabe sonore e nuove canzoni. I versi preferiti di Angela sostituivano i vecchi proverbi, diventando un mezzo per impartire educazione ai bambini, man mano che crescevano.

Angela e Giovanni hanno avuto cinque figli e ne hanno persa una quando tutti erano già adulti. Per Angela la musica ha continuato ad essere un antidoto al dolore, al vuoto e alla paura. Si asciugava le lacrime di nascosto, mentre inginocchiata piantava infinite varietà di fiori in giardino, cantando il suo repertorio privato.

«Fin che la barca va, lasciala andare»

Dopo alcuni decenni di vita in quella casa, quando Angela e Giovanni erano già da tempo i miei nonni, nel pomeriggio di un giorno qualunque incapparono in un dibattito televisivo, condotto da Maria De Filippi, sul tema dei diritti delle persone LGBTQ+. C’è da premettere che Angela era cattolica, credente e praticante. In quel momento scoppiò in lei un moto di orgoglio, come il giorno in cui sposò Giovanni andando contro ai pregiudizi. Chiamò in trasmissione, prese la linea e disse in diretta: «Io sono orgogliosa di essere mamma di una persona omosessuale e libera», scatenando un plauso scrosciante del pubblico in studio. Si commosse di gioia per l’energia di quella sua rivendicazione e dall’emozione riattaccò senza congedarsi. Il cammino per arrivare a quella presa di consapevolezza e posizione non era stato facile. Il peso del giudizio, di sentirsi donna, moglie e madre “sbagliata” l’ha vissuto e combattuto con resistenza, ma di certo non l’ha mai subìto.

«Che fretta c’era, maledetta primavera»

Due cose posso dire di mia nonna Angela: cantava sempre e non ha mai abbassato la testa di fronte alle ingiustizie. Non ha mai soffocato la sua voce. Ha vissuto una vita umile, simile a quella di tante altre donne della sua epoca, ma l’ha fatto completamente a modo suo. Ha amato profondamente e affrontato ogni cosa con lo spirito di chi pensa che l’unica cosa che conta sia provare a essere delle brave persone.

Ogni momento della sua vita è stato accompagnato dai versi di una canzone, ha cresciuto i figli e poi noi nipoti, ripetendo ritornelli. E il mangiadischi arancione md 1001 pack son è ancora con noi, dopo aver continuato a suonare per la libertà di Angelina, fino al suo ultimo sorriso in quel maggio 2020.

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