Quando osserviamo un atleta che indossa fiero e vittorioso la sua medaglia, ci concentriamo sui lustrini, sull’esultanza, sulla gioia di quegli attimi irripetibili. Questi istanti di euforia meritati e momentanei mettono in secondo piano la zona d’ombra di questi trofei. Quella che, poggiandosi sul petto, si rivolge allo spirito e all’anima per darle un imperativo preciso: “Non ti fermare, questo è solo l’inizio”. Perché in cuor suo ogni atleta lo sa: la commozione che suscitano queste imprese straordinarie dipende anche e soprattutto dalle fatiche che le precedono. La differenza sostanziale, nel caso degli atleti paralimpici, sta nel fatto che i vissuti, le esperienze dolorose e traumatiche che hanno spinto questi uomini e queste donne a superare i loro limiti fisici non sono dei macigni che hanno posto un freno alle loro possibilità. Anzi, rappresentano la molla che li spinge a non accontentarsi ad andare sempre oltre, addirittura al di sopra delle aspettative delle persone comuni.
“Nessun libro, nessuna lezione appresa a scuola, può darti la stessa ispirazione di quando assisti a qualcosa che credevi fosse impossibile”. (Principe Harry).
Queste sono le premesse da cui parte “Rising Phoenix”, su Netflix da un paio di mesi. Il titolo trae ispirazione dal nome scout di Bebe Vio, “Fenice Radiosa”, un appellativo onorato oltre che dalle 35 medaglie vinte nella scherma a soli 19 anni, da un sorriso contagioso e puro, mentre squarcia la penombra su cui si punta la cinepresa per restituire allo spettatore la sua semplicità. Il suo essere una ragazzina che conserva, ancora, l’onestà di dire le cose semplicemente per come le vengono in mente.
Rilasciato nell’anno in cui ricorre il cinquantesimo anniversario dei Giochi Paralimpici (rimandati al 2021 a causa dell’emergenza sanitaria), “Rising Phoenix” comincia con un excursus storico rispetto alle ragioni che hanno portato alla nascita del movimento paralimpico. A parlare è la figlia di William Guttam, neurochirurgo tedesco che con l’emanazione delle leggi razziali fu costretto a trasferirsi in Gran Bretagna. Qui iniziò a lavorare in un centro per le lesioni spinali nel quale venivano portati i reduci di guerra, i quali, invece che essere curati, venivano imbottiti di morfina perché considerati ormai non più funzionali, andando incontro ad un destino di morte che si sarebbe materializzato nel giro di pochi mesi.
Guttam ebbe un’intuizione che gettò le basi per la nascita e l’ispirazione del futuro movimento paralimpico: includere lo sport nella riabilitazione delle persone con handicap. Le attività sportive, infatti, li spingevano a migliorarsi a rimettersi in forma. Nella prima gara, alle olimpiadi del 1946 gli atleti erano solo 16. La prima competizione si tenne nel 1960 a Roma, con la denominazione “Giochi internazionali per paraplegici” che successivamente furono riconosciuti come “Giochi Paralimpici” con una precisazione terminologica fondamentale: il prefisso “para”, significa parallelo ai giochi Olimpici. Fu allora che il movimento iniziò a decollare.
La narrazione risulta apparentemente scostante e sembra mancare di un filo logico. I riferimenti al passato si alternano alle testimonianze di 9 atleti: la già citata Bebe Vio, il velocista sudafricano Ntando Mahlangu, la sollevatrice di pesi cinese Cui Zhe, il saltatore e corridore francese Jean-Baptiste Alaize, la fondista e biatleta statunitense Tatyana McFadden, l’arciere statunitense Matt Stutzman, il corridore inglese Jonnie Peacock, il giocatore di rugby australiano Ryley Batt e la nuotatrice Australiana Ellie Cole.
Ma la scelta dei registi registi Ian Bonhote e Peter Ettedgui risponde all’esigenza di uscire dai canoni del solito documentario con uno scopo puramente informativo, per portare alla ribalta, spettacolarizzandole, le storie dei protagonisti: “Alle Olimpiadi vengono creati gli eroi, alle paralimpiadi arrivano gli eroi. Siamo un po’ come gli Avengers: un gruppo di persone che cercano di salvare le persone, di lottare per vincere. Siamo supereroi perché abbiamo vissuto tutti una tragedia, abbiamo tutti vissuto qualcosa che non ci ha permesso di avere successo. È qui che sta la nostra forza” (Jean Baptiste Alaize). Lo spettatore è pronto quindi a sacrificare le sue pretese di linearità narrativa per lasciarsi trasportare nelle vite di questi idoli, recuperando l’intenzione più nobile dell’etimologia greco-latina.
“Rising Phoenix” non aggira la retorica del pietismo, ma la sfida, nella misura in cui offre ai protagonisti la possibilità (e a noi il privilegio) di raccontarsi e mostrarsi senza filtri. Di mostrare le loro cicatrici, le loro protesi, le loro amputazioni e di restare addirittura affascinati dalle loro imperfezioni, dal modo in cui le disabilità vengono trasformate in nuove abilità, nuove possibilità: “Quando mi sono sottoposto alla scansione del mio cervello i medici hanno scoperto che se la zona che fa muovere i piedi è mediamente grande come un legume, la mia è poco più grande di una pallina da baseball. È questo il mio dono, sono stato benedetto perché mi è stata donata la capacità di usare i piedi come le altre persone usano le mani” (Matt Stuzzman).
In questa scelta si rivela la ragion d’essere delle paralimpiadi. Gli atleti paralimpici non sono degli eroi solo perché vincono delle medaglie, ma perché combattono per cambiare la percezione della disabilità, per abituare le persone all’idea che esistono fisicità diverse. Lottano, innanzitutto, per far sì che i disabili abbiano il diritto di sentirsi cittadini, uomini, donne che contribuiscono a cambiare il mondo e a renderlo un posto migliore. Nel quale, cioè, nascere con una malformazione o senza un braccio o una gamba non sia più percepito come una assenza di opportunità, ma come l’inizio di una vita fatta di possibilità da scoprire. Come? Provandoci.
Insomma, il successo rappresentativo e la potenza espressiva di “Rising Phoenix” risiedono nel racconto delle biografie con un approccio ben calibrato. Privo di pietà retorica ma volto all’esaltazione della forza, della determinazione. Del racconto di esperienze sconvolgenti che sono state inalveate per diventare non un attenuante ma il movente che spinge questi atleti a sentire che l’ostacolo contro il quale combattere non è la loro disabilità ma un nuovo limite da superare. Che sia di tempo, di precisione, di salto, l’impressione che ci trasmettono è di trovarci di fronte a delle persone che tutto sono fuorché disabili che si trovano in una situazione di svantaggio.
“Ho vissuto una delle cose peggiori della vita da bambino. Sono un sopravvissuto alla guerra civile del Burundi, mi hanno colpito con un machete, è così che ho perso la gamba. Poi mi hanno costretto ad assistere all’uccisione di mia madre. Ho scelto il salto in lungo perché mi dà la sensazione di fuggire, di partire e non tornare, di volare. Salto per scappare da tutto quello che ho vissuto” (Ntando Mahlangu).
Il messaggio è molto chiaro: l’obiettivo del documentario non è quello di mostrarci come avere successo nonostante la disabilità ma di dirci che tutti noi, come esseri umani, quando ci troviamo di fronte ad un dolore, ad un ostacolo, ad una paura, possiamo solo scegliere di affrontarli, di muoverci, di correre, di lottare, di andare avanti.
Gli scienziati lo definiscono “istinto di sopravvivenza”, gli inguaribili romantici lo chiamano “eroismo”.