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Sudan, la crisi di cui nessuno parla: otto milioni di profughi in meno di due anni

Articolo. Una guerra civile brutale sta devastando il Sudan, con milioni di profughi e una crisi umanitaria senza precedenti. Grazie al racconto degli operatori CESVI di Bergamo, scopriamo l’impegno umanitario e le difficoltà sul campo in un conflitto che resta lontano dai riflettori ma vicinissimo a chi aiuta.

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«In Sudan, una brutale lotta per il potere ha scatenato delle violenze orribili. Stupri e violenze sessuali sono diffusi su larga scala». Con queste parole, il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha aperto la 79° sessione dell’Assemblea Generale dell’ONU. Più e più volte, nel corso della plenaria, la crisi in Sudan è stata paragonata a quelle di Gaza e dell’Ucraina: «in Sudan, una sanguinosa guerra civile ha generato una delle crisi umanitarie più gravi al mondo. Otto milioni di persone sono sull’orlo della fame. Centinaia di migliaia non hanno più da mangiare, le atrocità sono diffuse in Darfur e ovunque nel Paese», ha detto il Presidente americano Joe Biden . Dati alla mano, in effetti, la situazione sudanese è ben peggiore di ogni altro scenario di crisi su scala globale: essa ha causato lo sfollamento di 8,2 milioni di persone nel giro di poco più di un anno (le ostilità sono iniziate nell’aprile del 2023), contro il milione e mezzo di rifugiati generati dall’invasione israeliana della Striscia di Gaza e i 3,7 milioni prodotti dall’avanzata russa in territorio ucraino. Eppure, del Sudan si parla ancora troppo poco, al punto che in tanti non hanno nemmeno idea che nel Paese africano sia in corso una guerra civile.

Le origini del conflitto in Sudan

Il 25 ottobre 2021, l’esercito sudanese mette in atto un colpo di stato militare e prende il controllo di Khartoum: il governo civile, guidato da Abdalla Hamdock, viene destituito, mentre un’ondata di arresti coinvolge i vertici della politica nazionale. A guidare il golpe è il Generale Abdel Fattah al-Burhan, subito nominato capo del Consiglio Sovrano di Transizione - la giunta militare che negli ultimi tre anni ha governato il Sudan. Il colpo di stato del 2021 non gode del supporto della popolazione. Al contrario, ampi strati della società (dai sindacati agli studenti, dall’associazionismo agli imprenditori) mettono in atto una vera e propria resistenza civile e spingono per il rapido ritorno al governo civile: d’altro canto, Hamdock si era insediato solo nel 2019, dopo un colpo di stato “democratico” (ma pur sempre messo in atto dall’esercito) contro il dittatore Omar al-Bashir, che governava ininterrottamente da ormai trent’anni. Come è possibile che il golpe del 2021 abbia avuto successo nonostante l’opposizione dei cittadini? Merito della partecipazione delle Forze di Supporto Rapido (RSF), un gruppo paramilitare capeggiato dal Generale Mohamed Hamdan Dagalo, anche noto come “Hemedti”: Dagalo è uno strettissimo alleato di al-Burhan (il suo successore designato, per alcuni), nonché il Vicepresidente del Consiglio Sovrano di Transizione. Le RSF, invece, sono il puntello dell’autorità del governo militare di Khartoum.

Considerato che al-Burhan ed Hemedti hanno un’amicizia di lungo periodo - iniziata nel 2003, ai tempi del genocidio in Darfur - ci si poteva aspettare che il nuovo regime sudanese, una diarchia de facto, fosse solido. Le cose, però, sono rapidamente precipitate. Il rapporto tra i due generali si è rapidamente incrinato dopo il colpo di stato del 2021, per almeno due motivi. Il primo è che sia Hemedti che al-Burhan volevano governare il Sudan, e volevano farlo da soli.

Come ha spiegato alla BBC Siddig Tower Kafi, uno dei pochi membri civili del Consiglio Sovrano di Transizione, «con il tempo, è diventato evidente che al-Burhan volesse ripristinare il regime di al-Bashir con sé stesso al vertice. I suoi sostenitori hanno iniziato a liberare i funzionari dell’epoca della dittatura e gli islamisti radicali, rimettendoli al loro posto». Insomma, al-Burhan voleva governare il Sudan a vita, mentre Hemedti si aspettava che, prima o poi, si sarebbe verificata una successione e che lui avrebbe preso il posto dell’alleato. Al-Burhan, invece, considerava il Vicepresidente come una minaccia per la tenuta del suo stesso governo: Hemedti guidava ancora le RSF, d’altro canto. Così, l’esecutivo di Khartoum ha varato un piano per inglobare i 100.000 combattenti di Hemedti nell’esercito sudanese, guidato dallo stesso al-Burhan. Di fronte al rischio concreto di vedersi privato del suo esercito, Dagalo ha deciso di rispondere con la violenza, dando inizio a degli scontri che si protraggono ormai da un anno e mezzo.

Ridurre il conflitto civile sudanese a una guerra intestina tra due generali, però, sarebbe riduttivo e non permetterebbe di spiegare il numero elevatissimo di rifugiati che esso ha causato. Tra il 2003 e il 2020, la provincia occidentale sudanese del Darfur è stata al centro di uno scontro su base etnica, che ha visto la popolazione africana scontrarsi con la componente araba del Paese. La parte “nera” del Sudan era riunita nel Movimento di Giustizia e Libertà (JEM) e nel Movimento per la Liberazione del Sudan (SLM), mentre gli interessi degli arabi erano rappresentati dall’esercito sudanese di al-Burhan e dai Janjaweed, un gruppo paramilitare che poi si sarebbe trasformato nelle Forze di Supporto Rapido di Hemedti.

Il conflitto durò per quasi 18 anni e causò lo sfollamento di due milioni di persone e la morte di altre 400.000, in quello che molti definiscono un vero e proprio genocidio. Il conflitto in Darfur è finito nel 2020, con gli accordi di Juba, ma le tensioni etniche tra arabi e africani nella regione non si sono mai sopite del tutto. Così, quando le violenze sono riprese attorno a Khartoum, le RSF hanno iniziato a colpire anche in Darfur, scagliandosi contro le loro vittime “storiche”, ovvero gli etnici di origine africana che nulla avevano a che vedere con il governo di al-Burhan. Lo stesso Hemedti è un arabo del Darfur ed è spesso stato additato alla stregua di un «bifolco di campagna» incapace di governare un Paese come il Sudan: forse è proprio per questo che il suo gruppo paramilitare è molto attivo in Darfur, regione così povera e periferica da essere inutile in una guerra civile per l’occupazione delle posizioni apicali della politica nazionale.

Il Sudan al collasso

Benché i numeri forniscano una buona idea del dramma sudanese dell’ultimo anno e mezzo, la reale situazione sul campo è pressoché sconosciuta, anche perché ormai entrare in Darfur è quasi impossibile per la stampa. Il Direttore dell’Unità Aiuti Umanitari e Risposta alle Emergenze del CESVI, Marcelo Garcia Dalla Costa, è appena rientrato in Italia dal Sudan e ci ha raccontato ciò che ha visto con i suoi occhi: «la crisi sudanese è quella più “grossa” in Africa, in termini di numeri. E forse è la più grave al mondo. Gli sfollati interni sono otto milioni, ma ci sono anche altri quattro milioni di rifugiati nei Paesi limitrofi, come il Ciad, l’Uganda, l’Egitto, l’Etiopa e la Repubblica Centrafricana. Il Sudan è al collasso: il governo non riesce a garantire i servizi essenziali, quelli di base. Il sistema sanitario è imploso: non ci sono medici, non ci sono medicine, non ci sono ospedali, specie nelle zone più remote», spiega Dalla Costa.

Ma i problemi non finiscono qui: «le scuole sono chiuse dall’inizio della guerra civile, quindi da aprile 2023. Le uniche eccezioni sono quelle dello Stato del Nilo e della città di Port Sudan, dove il sistema scolastico ancora regge. Ma in generale i bambini non vanno a scuola ormai da più di un anno e mezzo. Quando siamo andati a verificare la situazione sul campo, ci siamo trovati di fronte una popolazione completamente traumatizzata: queste persone hanno visto i loro villaggi bombardati, le donne e i bambini hanno subito violenze indicibili».

Proprio la diffusione della violenza è ciò che più ha colpito il Direttore del CESVI: «ci sono bambini che hanno visto i loro famigliari morire davanti ai loro occhi, uccisi dai miliziani o colpiti dal fuoco incrociato durante gli scontri tra le RSF e l’Esercito del Sudan. Oltre a scontrarsi tra loro, le due parti in conflitto spesso distruggono i villaggi, uccidono sistematicamente le persone e perpetrano stupri e violenze sessuali contro le donne come strumento per cementare il proprio controllo e la propria autorità sulle comunità rurali».

L’altro grande problema - sottolineato anche da Biden davanti all’Assemblea Generale dell’ONU - è quello della fame. «L’insicurezza alimentare è aumentata, ora è a livelli devastanti. Il Sudan è sempre riuscito a mantenersi su una produzione di cibo sufficiente, ma da quando è iniziata la guerra le cose sono cambiate: molti contadini hanno abbandonato le proprie terre per sfuggire al conflitto, perciò la produzione agricola è crollata. I livelli di malnutrizione sono schizzati verso l’alto nell’ultimo anno, sono tra i più alti al mondo. E, purtroppo, si tratta di un trend in fase di peggioramento: non c’è alcun segnale di miglioramento all’orizzonte», aggiunge l’operatore umanitario.

Il conflitto in Sudan ha due volti: al-Burhan e Hemedti combattono per il potere politico; le RSF si scagliano contro i civili in Darfur perpetuando un conflitto su base etnica che va avanti, tra alti e bassi, ormai da vent’anni. «In effetti, le zone di conflitto più acuto sono due», riporta l’esperto del CESVI. «A Khartoum c’è un primo fronte di guerra, perché è lì che l’Esercito del Sudan e le RSF combattono giorno dopo giorno, attaccandosi continuamente per ottenere l’accesso ai palazzi del potere. Chi riuscirà a prendere la capitale potrà darsi una certa legittimità politica, per questo si combatte così strenuamente per il suo controllo.

L’altro fronte è quello del Darfur del Nord, con continue battaglie attorno alla capitale regionale al-Fashir. Ad oggi, gli analisti sono convinti che l’RSF stia progettando di occupare la città dopo la stagione delle piogge. Non succederà subito, ma ci sarà una resa dei conti. E se l’RSF dovesse prendere al-Fashir, possiamo aspettarci un enorme movimento di sfollati verso Est e verso Nord». Nel mentre, anche le violenze etniche in Darfur si sono intensificate: «c’è chi parla di una ripresa del conflitto nella regione, ma per noi in realtà quella guerra non si è mai fermata. La differenza è che adesso l’accesso al Darfur è molto più difficile sia per gli aiuti umanitari che per gli operatori, che possono entrare solo dal confine con il Ciad. L’RSF sta facendo piazza pulita di interi villaggi, e nessuno riesce a documentarlo», conclude Dalla Costa.

Anche il Sudan del Sud è in ginocchio

Il conflitto sudanese potrebbe riverberarsi anche sui Paesi confinanti: osservato speciale è il fragile e poverissimo Sud Sudan, diventato indipendente nel 2011 e i cui rapporti con Khartoum sono sempre stati rocamboleschi. «Il Sud Sudan ha combattuto una guerra con il Sudan, perciò i profughi sudanesi tentano prima di andare altrove, in Egitto o in Etiopia - riporta Monica Gaspari, laica bergamasca che lavora come insegnante per una scuola di suore Comboniane a Cueibet, nella diocesi centrale di Rumbek - perciò chi arriva qui lo fa perché non ha altre possibilità. Molti vogliono andare al Cairo e da lì partire per l’Inghilterra. Chi sceglie di migrare a Sud, invece, viene fermato nei campi profughi di Renk, sul confine tra Sudan e Sudan del Sud. La condizione di queste strutture è pessima, la qualità della vita è persino peggiore di quella delle aree di guerra. Chi può, scappa: da Renk non ci sono strade che portano nel resto della nazione, perciò è necessario prendere un aereo. E per farlo bisogna pagare».

Gaspari racconta che i migranti che riescono infine ad arrivare a Juba e nelle altre città del Sud Sudan hanno già amici e famigliari nel Paese, che li aiutano a uscire dai campi profughi, che pagano i biglietti aerei, che forniscono vitto e alloggio e che permettono agli sfollati a rimettersi in piedi: «è per questo che molti rifugiati sudanesi riescono ad aprire rapidamente dei piccoli negozi o altri esercizi commerciali. Vendono caffè, beni agricoli, frutta e cose simili: chi arriva dal Sudan di solito ha dei risparmi, il che significa che paradossalmente i rifugiati sono più ricchi della media della popolazione dello Stato che li ospita».

Il conflitto in Sudan ha avuto anche delle ripercussioni economiche sul suo vicino meridionale: «la vita in Sud Sudan è molto instabile, oggi come oggi. I negozi stanno soffrendo molto a causa della guerra, e lo stesso vale per i consumatori. Il Paese si sosteneva grazie alle esportazioni di petrolio, ma l’oleodotto nazionale passa attraverso il Sudan, e adesso è interrotto per via del conflitto. La vendita del petrolio era l’unica entrata nella bilancia dei pagamenti, il che significa che ora il Sudan del Sud importa tantissimi beni dall’estero, ma non vende più nulla sui mercati internazionali. Juba ha un enorme bisogno di dollari, perché tutti i beni di prima necessità arrivano dall’estero. La vita delle persone è di sussistenza, si campa di quello che si produce: quando le scorte finiscono e i raccolti vengono consumati, iniziano le carestie. Al mercato ci vanno solo i funzionari dello Stato e i dipendenti delle ONG. Inoltre, lo sbilanciamento dei commerci internazionali dopo l’inizio della guerra ha portato la moneta nazionale a perdere di valore: il prezzo dei beni di consumo è quasi raddoppiato, e di conseguenza il potere d’acquisto è crollato di più del 50%. Per questo, anche i migranti che arrivano qui dal Sudan lo fanno in via temporanea, in attesa di tornare a casa», conclude Gaspari.

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