Era il 1996. L’anno della mia nascita e l’anno in cui mio zio, come molti italiani negli anni Novanta, partiva per Londra per imparare l’inglese. Lavava i piatti, dormiva su un divano a Portobello Road e non ne poteva più di quel ritornello: “It’s coming home, football is coming home”. Quell’anno una mascotte di nome Goaliath, un leone vestito con la divisa dell’Inghilterra, accompagnava i londinesi a Wembley.
Venticinque anni dopo gli Euro96, eccomi a Londra. A tifare l’Italia, a cantare a squarciagola circondata da gente da tutto il mondo. Domenica scorsa fuochi d’artificio verdi, bianchi e rossi hanno illuminato Wembley e i miei amici britannici hanno dichiarato di non voler più mangiare pizza o pasta. Amici inglesi – mi correggo – perché gli scozzesi vestivano azzurro fin dalla prima partita.
Non vi parlerò di come ha giocato l’Inghilterra. Devo ammettere che non ho mai seguito il calcio, mi sono fatta spiegare almeno una decina di volte il significato di “fuorigioco” e quando Donnarumma ha parato l’ultimo rigore non avevo nemmeno capito che la partita fosse finita. Credo però che il calcio sia un po’ lo specchio di una cultura. Mi piace osservare la gente. E penso di essere riuscita a capire di più gli inglesi proprio guardandoli tifare. E perdere a casa loro.
Una lunga storia d’amore
La storia d’amore tra gli inglesi e il calcio comincia quasi due secoli fa. È a Cambridge che, nel 1848, si stilò il primo regolamento del football, regolamento diventato poi celebre come “Regole di Cambridge”. Forse gli inglesi non sanno che le basi del calcio moderno erano già state poste nel Belpaese. A Firenze, nel corso del Rinascimento, si praticava il “calcio in costume”, uno sport che a sua volta prendeva spunto da alcuni giochi greci e romani.
Ho fatto questa premessa perché, anche se la storia ci dice altro, gli inglesi sono convinti che il calcio sia una loro completa invenzione. Gran parte di questi Europei, oltre tutto, li hanno giocati al Wembley Stadium. Casa loro. Il tempio. Potete facilmente intuire perché, sette giorni fa, c’era chi si tatuava la coppa sulla gamba ancora prima della finale.
Ho seguito gli Europei un po’ al pub e un po’ su Rai on demand, dall’ottavo piano del mio palazzo. Un’esperienza – la seconda – che non ripeterò più. La nostra connessione Internet è ballerina, per cui la trasmissione era leggermente in ritardo. I gol non sono mai stati una sorpresa: li annunciavano le urla dal bar sotto casa, i cori dalle strade, la musica… prima ancora che li vedessi sullo schermo.
La fan zone ufficiale si trovava a Trafalgar Square, centro città. Io e la mia coinquilina l’abbiamo attraversata per la prima volta per visitare la National Gallery, il più grande museo di arte europea della città. Quella sera, l’Inghilterra vinceva quattro a zero contro l’Ucraina.
L’ingresso del museo era nascosto da cancelli di colore azzurro. La statua dell’ammiraglio Nelson svettava fiera tra due maxischermi, una serie di panche e una folla di persone poco rispettose del distanziamento sociale e ubriache già dal pomeriggio.
Ubriache, truccate o in costume. Avete presente Spiderman? Ecco, immaginate un uomo vestito con una tuta simile, estremamente aderente e lunga da capo a piedi. La tuta, anziché portare i colori dell’uomo ragno, portava impressa la bandiera dell’Inghilterra. Io e la mia amica siamo rimaste a guardare questo strano tifoso per un po’. Non avevo mai visto un uomo vestito – letteralmente – da Inghilterra. È entrato nell’area riservata di Trafalgar, ha comprato una birra, e si è tolto con nonchalance il cappuccio per sorseggiare la sua Pale Ale.
Come ci vedesse prima, con quel cappuccio a coprire pure gli occhi, non l’abbiamo capito.
La finale, fuori e dentro Wembley
Il giorno della finale i cori dei tifosi sono diventati uno solo: “It’s coming home, football is coming home”. È il ritornello di una canzone degli anni Novanta che si chiama “Three Lions”. Sì, quella canzone che sentiva già mio zio nel ’96.
In realtà, il testo per intero è abbastanza amaro: lamenta un secolo di sconfitte e delusioni calcistiche. Gli autori del brano – due comici famosi nel Regno Unito – deridono i tifosi inglesi, abituati a perdere, ma convinti a ogni partita che il football possa tornare nella nazione che l’ha inventato. Appunto.
Quando ho letto la storia della canzone, mi sono messa a ridere. Com’è possibile intonare un coro che è essenzialmente un’autoderisione? All’inizio, ho pensato fosse British humour. E ho sorriso alla storpiatura del verso fatta in Italia: “It’s coming to Rome”. Peccato che poi tutto quello humour sia svanito in fretta. Ho visto la partita in un “covo” di italiani, a Soho. Ricordo tutto con esattezza.
Cominciamo a bere qualche birra, messaggiamo i nostri compagni di classe inglesi (qualcuno si diletta a sovrapporre all’immagine della regina i capelli del presidente Mattarella, qualcun altro a inviare la stessa foto della regina, con il volto di Mancini). I più fortunati sono a Wembley.
Laura, un’amica bergamasca, mi scrive dallo stadio. Dal suo posto, non ha una gran visuale ma riesce a capire cosa sta accadendo anche solo dalle reazioni del pubblico. A ogni azione dall’Italia, tra i tifosi inglesi cala il silenzio. Tra quelli italiani, c’è emozione e trepidazione.
Laura mi dice che i tifosi inglesi già festeggiavano la vittoria prima di entrare a Wembley e sedersi al loro posto. Devo dire che questo mi ha sconvolto, più delle classiche prese in giro (“Ma quanto è buono l’ananas sulla pizza”). La verità è che noi italiani siamo un popolo molto più superstizioso e forse anche più prudente. Mia nonna paterna, da buona donna meridionale, mi ha insegnato a toccare ferro prima di ogni sfida. Senza acqua santa in casa non poteva rimanere. E guai a parlare troppo presto. Laura, sugli spalti di Wembley, ha confermato il mio pensiero. “Da italiana non facevo altro che ripetere che ci avrebbero massacrati, salvo poi sperare sotto sotto in una vittoria, ma senza dirlo a nessuno, altrimenti non si avvera…”.
Il momento dei rigori – i penalties – è un momento sacro. Una nostra compagna di classe ungherese ci scrive da un aereo diretto a Budapest. È ferma all’aeroporto di Heathrow, l’aereo non decolla. I suoi vicini di posto non parlano d’altro: c’è la finale, la finalissima.
Come vi dicevo, non mi accorgo subito che abbiamo vinto. Quando gli amici italiani cominciano a esultare, mi commuovo. Chiamo la mia famiglia a casa, sento in chiamata i rumori dei clacson che animano le strade di Montello, il mio piccolo paese.
Laura e i fortunati di Wembley restano circa un’ora a festeggiare nello stadio. Gli inglesi invece lasciano gli spalti pochi minuti dopo la fine. Molti non assistono nemmeno alla premiazione. I giocatori, da quanto abbiamo visto in tv, non sono da meno. Si tolgono la medaglia subito dopo averla indossata.
Boris Johnson aveva promesso un Bank Holiday, in caso di vittoria. Festa nazionale. Il Bank Holiday non c’è stato, quel lunedì. Ho festeggiato con gli amici italiani, i miei compagni inglesi si sono dichiarati heartbroken. Qualcuno ha abbandonato pure il gruppo WhatsApp dell’università.
Violenze, razzismo e solidarietà
La sera della partita, non sono uscita per strada fino a tarda notte. I video che mi hanno mandato gli amici mi sono bastati. Li hanno visti anche i miei genitori, dall’Italia. Bus assaliti, tifosi ubriachi, lattine di birra e vetri infranti a terra. Tra i video postati e ripostati sui vari giornali italiani, ce n’è anche uno che mostra un gruppo di inglesi calpestare la bandiera italiana. Questo episodio mi ha fatto capire come non ci sia, nella terra che dice di aver inventato il calcio, un vero e proprio spirito sportivo.
Certo, quello che ho imparato studiando giornalismo a Londra è che bisogna fare attenzione alle fonti. Domenica scorsa c’è stata tanta disinformazione. Si è detto che alcuni tifosi italiani sono stati picchiati a Wembley. In realtà, il video che ha pubblicato anche la Rai mostra un fatto successo prima della partita. Decine di tifosi inglesi (senza biglietto) hanno assaltato un cancello a Wembley, suscitando la reazione violenta di altrettanti tifosi inglesi (con biglietto).
Si è parlato anche di razzismo. Su questo non si sbaglia. Poche ore dopo l’esito del match si erano diffusi sui social media insulti razzisti rivolti a Marcus Rashford, Jadon Sancho e Bukayo Saka, i tre giocatori che hanno fallito i rigori decisivi. Qualcuno, a Manchester, ha sfigurato un murale raffigurante Rashford, dipinto dall’artista di strada Akse come riconoscimento al calciatore per l’impegno a favore dei bambini poveri.
Manchester è lontana da Londra, per cui non ho potuto vedere il murale. Ma ho saputo che una donna ha applicato al muro dei cuori di carta. A una settimana dalla sconfitta – che ancora brucia – il ritratto di Rashford si è riempito di bandiere colorate e messaggi di solidarietà. “Questo è, almeno in parte, quello che siamo. Quello che possiamo essere”, ha scritto Terri White, giornalista di Empire, sul suo profilo Twitter.
Questa settimana gli sguardi degli inglesi sono stati cupi. Le strade silenziose e sporche. Poi, però, ci sono stati gli amici che hanno mandato messaggi bellissimi di congratulazioni. La mia amica Laura, che lavora in uno studio italiano in un palazzo della City pieno di aziende inglesi, ha attaccato alla porta di ingresso una piccola immagine di Chiellini con la coppa. Nessuno è ancora venuto a strapparla.
I giornali ci hanno fatto credere che tutto è andato male, a Wembley. Abbiamo detto agli inglesi che ancora ne dovevano mangiare, di pastasciutta. Però qualcuno, ve lo giuro, l’ha mangiata già il giorno successivo, una volta digerita la sconfitta. Qualcun altro ha applaudito in metropolitana.
Essere tifosi rispettando l’avversario è possibile, anche se si è inglesi.