All’Università non suona la campanella tra una lezione e l’altra. Nemmeno nelle università di Londra. Il mio anno tra le aule di Giornalismo della City University è finito la settimana scorsa, con una bevuta al pub e la promessa di una rimpatriata a settembre. Peccato che non sia così facile. I miei compagni vengono da almeno quindici paesi diversi. Ci siamo noi italiani, in netta maggioranza. Poi c’è una lituana, un ceco, un’ungherese, una cinese. Ci sono spagnoli e francesi, ma anche kenyoti, brasiliani, indiani. Gli inglesi? Una decina o poco più.
Avrete già capito dove voglio arrivare. Londra è una città dove puoi fare il “giro del mondo” in poche ore. Io, questo giro del mondo l’ho fatto addirittura in università.
Chi conosce un po’ di storia forse non si sorprende. Nel 2015, uno studio condotto dalla Durham University e dalla canadese McMaster University ha analizzato alcuni scheletri conservati presso il Museum of London. I resti appartenevano a quattro persone vissute nell’attuale capitale duemila anni fa, quando i Romani invasero la Britannia. Solo un individuo è risultato autoctono. Gli altri sarebbero stati di origine africana e mediterranea. Londra, allora, era già cosmopolita.
Pollo, curry e fish and chips
Il cibo, si dice, è specchio di un’identità e di una cultura. Ora, vi sfido a elencare almeno tre dei piatti tipici della cucina inglese. Negli alberghi e nei bar si fa colazione con uova, bacon e qualche fetta di formaggio. In casa, si preferisce del pane tostato traboccante di burro.
Quando sono sbarcata oltremanica, ho comprato del fish and chips. Platessa impanata con patatine, sulle rive del Regent’s Canal. Poi, ho smesso di cercare piatti britannici. Londra non brilla per la cucina inglese, ma per la cucina etnica.
Basta passeggiare per il centro. Si troveranno ristoranti greci, giapponesi, vietnamiti. I miei amici hanno provato la cucina laotiana. Mentre io cercavo su Google il significato di “laotiano”, mi hanno mostrato una foto del Larb, un’insalata di carne macinata, aromatizzata con succo di pesce fermentato, lime, riso, erbe fresche e peperoncini. Mi è venuta l’acquolina in bocca, anche se io e il cibo piccante non andiamo molto d’accordo.
I locali, qua a Londra, si dividono in due tipi: ci sono posticini molto curati, dove assaggiare il vero Bao coreano oppure il Curry (nota bene: il Curry non è solo la spezia, ma un vero e proprio piatto di verdure stufate, come ha tenuto a specificare la mia amica di origini indiane). Altri locali sono poco più che improvvisati: lo si capisce dall’insegna al neon, a volte traballante, dalle foto esposte in vetrina e soprattutto dai prezzi, molto più accessibili.
Gli inglesi si mettono spesso in fila al fast food. Dimenticate McDonald’s e Burger King. Qua in tantissimi vanno matti per Itsu, una catena di sushi e sapori orientali, ma anche per Nando’s e il suo Peri Peri Chicken, un pollo alla griglia con salsa piccante di derivazione portoghese. Io l’ho provato e vi giuro che ho rimpianto per giorni il pollo arrosto con le patatine dei mercati italiani.
Le treccine di Brixton
Tra i sapori e i colori che ho amato di più ci sono quelli del mercato di Brixton. Brixton è un quartiere vivacissimo situato a sud-ovest della capitale. È noto per il suo mercato, per essere il luogo natale di David Bowie e per la presenza di comunità afrocaraibiche.
A Brixton si beve un cocktail giamaicano. Le bancarelle di vinili vendono quasi esclusivamente musica reggae, mentre nei negozi di vestiti si può fare incetta di fasce, abiti per bambini e accessori africani. C’è un punto preciso del mercato dove le ragazze africane si fanno le treccine. Io e la mia coinquilina, da turiste curiose, un giorno ci siamo avvicinate per fotografarle attraverso le vetrine. La parrucchiera è uscita dal negozio e ci ha mandato via. Non ne abbiamo capito il motivo. Il momento dell’acconciatura è forse sacro per le ragazze africane di Brixton. In qualche modo lo stavamo violando.
Vaccini in luoghi improbabili
A Londra, l’integrazione tra comunità a volte è difficile. Esistono però iniziative bellissime. Una di queste è stata lanciata proprio il mese scorso attorno alla stazione di King’s Cross, un’area popolata da comunità bangladesi e somale. L’associazione culturale Poet in The City ha commissionato a dodici poeti di origine britannica, bangladese e somala dodici poesie nelle rispettive lingue.
Le poesie sono state esposte sui muri del più grande centro di vaccinazione londinese: il Francis Crick Institute. Una delle poetesse, Nazneem Ahmed, mi ha spiegato che molti bangladesi sono diffidenti all’idea di vaccinarsi contro il Covid-19. L’associazione e il Crick Institute hanno pensato allora a qualcosa di geniale: spingere la gente a vaccinarsi facendo loro leggere poesie in lingua. Nazneem stessa è bangladese. “Sai, non vediamo l’alfabeto Bengali tutti i giorni” mi ha detto. “Così, quando lo vedi, fai tipo ‘Oh, mio Dio’, questa lingua mi è familiare!”.
Resto in tema jabs. Il 23 marzo, alla Fazl Mosque, la più antica moschea di Londra, sono state somministrate mille dosi di vaccino. Allora mi trovavo in Italia e non potevo crederci. Ne ho avuto la prova qualche settimana dopo, quando sono passata davanti a un’altra moschea: la London Central Mosque di Regent’s Park. Non la si vede nemmeno, talmente grande è il manifesto che ringrazia l’NHS, il sistema sanitario britannico, per il lavoro svolto durante la pandemia. Il sabato e la domenica, chiunque può entrare a vaccinarsi.
C’è di più. Sadiq Khan, sindaco di Londra, pakistano e musulmano praticante, non si è vaccinato in moschea. L’ha fatto a Streatham, in una chiesa battista. Ha pure twittato, la sera stessa: “Amo il fatto che, come sindaco di fede islamica, ho ricevuto il mio vaccino presso una chiesa locale”. A somministragli la prima dose è stato un reverendo.
Parlare di vaccini mi porta a fare una parentesi amara. I casi di Covid-19 in capitale sono tornati a salire per via della diffusione della variante Delta. Il 21 giugno tutte le restrizioni sarebbero dovute cessare. Boris Johnson – con rabbia dei londinesi – ha rimandato questo ultimo step al 19 luglio. Resta in vigore, per di più, la quarantena di dieci giorni per chiunque arrivi in Regno Unito, eccezion fatta per australiani, islandesi e pochi altri. Se volete vedere i vaccini in moschea, quindi, dovrete aspettare ancora un po’.
La fine della multiculturalità?
Londra è una città ricca di contrasti. Vivo a dieci minuti a piedi dal quartiere bangladese di Brick Lane. Ci sono supermercati, negozietti artigianali, fruttivendoli. Brick Lane è tuttora in pericolo. I proprietari dell’Old Truman Brewery, ex stabilimento di produzione di birra, stanno cercando di far costruire un edificio di cinque piani per uffici e un centro commerciale. Secondo i residenti, questo piano rovinerà il carattere storico dell’area, alzerà i prezzi degli affitti e spingerà altrove la gente che ha chiamato Brick Lane casa per anni. Ma la cosiddetta gentrification è solo uno degli ostacoli che l’anima multiculturale della città sta affrontando.
Un altro è la Brexit. Londra non ha voluto la Brexit, l’ha subita. Il 60% dei residenti avrebbe voluto restare in Unione Europea. A votare per il remain, secondo le analisi, sono stati soprattutto i quartieri più ricchi, quelli che godono di una forte presenza di giovani e studenti universitari o di un’integrazione ben riuscita tra britannici e altre etnie.
Ricordo ancora quel primo gennaio. Mi trovavo in Italia, per le vacanze di Natale. Allora, stava esplodendo la variante “inglese”. La Brexit è passata quasi inosservata, talmente forte era la preoccupazione per quello che stava succedendo, la paura di un altro lockdown e – almeno per quanto mi riguardava – l’amarezza all’idea di non poter tornare in università nell’immediato. Ho capito che qualcosa era cambiato solo a inizio febbraio, quando sono riuscita a ripartire.
Avete presente quando, atterrati in un altro paese, togliete la modalità aereo dal cellulare? Arriva subito un messaggio dall’operatore telefonico, che avvisa della possibilità di continuare a utilizzare la propria tariffa nazionale anche all’estero. Ecco, di solito il messaggio comincia con “Benvenuto in Regno Unito! Con Tim, ti senti a casa in tutta Europa”. Quel messaggio a febbraio è arrivato comunque ma anziché esserci scritto “Benvenuto in Regno Unito”, c’era scritto “Benvenuto in [nome del paese]”. Come se fossi arrivata in una terra sconosciuta, senza nome.
Un dettaglio insignificante, direte. Eppure, mi ha fatto sentire un po’ straniera. Non stavo tornando a casa. Stavo mettendo piede in un paese che non mi apparteneva più. Pensate che nelle settimane successive non ho nemmeno avutola consolazione del “pacco da giù”. Spedire qualcosa dal “continente” al Regno Unito ora costa molto di più. Un pacco, per arrivare, ci mette settimane.
Da settembre le tasse universitarie, per gli europei, raddoppieranno. E partire dall’Italia per fare il lavapiatti o il pizzaiolo sarà difficile. Servono visti e servono soldi. I miei compagni di classe mi hanno chiesto più volte scusa per le decisioni del governo, come se fosse stata colpa loro. Hanno paura di una Londra vuota, una Londra senz’anima.
Io lascerò l’Inghilterra domani sera. E spero di ritrovarla a settembre sempre viva, colorata, meticcia. Anche con la pioggia e il pollo Peri Peri.