“Vento dell’Est, la nebbia è là. Qualcosa di strano tra poco accadrà”. Ricordate Mary Poppins? È ambientato a Londra. All’inizio del film, lo spazzacamino Bert si accorge che l’aria che si respira in città è un’aria diversa. Non si sbaglia: Mary Poppins sta arrivando a casa Banks. La più famosa tra tutte le tate se ne andrà solo quando il vento cambierà di nuovo.
A Londra, quando cambia il vento, succede sempre qualcosa. È successo anche in queste ultime settimane.
Lunedì 29 marzo, gli inglesi hanno potuto indossare il costume da bagno e tuffarsi in piscina dopo tre mesi di lockdown. A metà aprile, il governo ha riaperto i pub, i negozi e i parrucchieri. Il 17 maggio è stata la volta dei cinema, dei teatri e dei musei. Delle riaperture in terra anglosassone hanno parlato tutti, del gran vento che le ha accompagnate no. Qua ci sono abituati e ne approfittano, tanto che c’è chi va in windsurf sul Tamigi.
Devo dire che quel vento incessante è stata la prima cosa che mi ha colpito. Poi è arrivato tutto il resto: la musica per strada, le file ordinate dal parrucchiere, i pub con le serrande alzate. Ho osservato alcuni di questi cambiamenti dalla finestra del mio palazzo, in quarantena dopo un periodo trascorso in Italia. Poi, li ho vissuti tutti sulla mia pelle.
Oggi voglio raccontarvi una Londra nuova, una Londra che si è svegliata da un letargo durato mesi ed è tornata ad accogliere i turisti. E a fare quello che ha sempre fatto. Ad esempio andare dal parrucchiere o brindare dopo un funerale.
Il parrucchiere
Tra i video diventati virali in Italia l’anno scorso ce n’è uno: quello in cui il presidente Mattarella si sistema il ciuffo fuori posto e si rivolge al suo consigliere dicendo “Giovanni, nemmeno io vado dal barbiere”. Non credo che quel video abbia spopolato anche in Inghilterra, ma posso assicurare che la situazione è stata simile. A Londra, i parrucchieri sono stati chiusi non uno, ma tre mesi.
Nella prima settimana di aprile, alcuni di loro hanno aperto le prenotazioni. È stato come comprare il biglietto per un concerto: i posti sono andati esauriti in pochi minuti. La mia coinquilina ha provato a collegarsi alle 11.01 al portale del suo parrucchiere di fiducia. Ha dovuto aspettare una settimana per poter finalmente sfoggiare una tanto agognata frangetta. Quando sono tornata in università, la mia compagna lituana aveva i capelli arancioni, l’amica italiana i boccoli rosa. C’è chi ha saltato le lezioni per un appuntamento col barbiere, chi si è messo in fila (quanto sono ordinate le file qui!) davanti alla porta del negozio. Insomma il risveglio di Londra è cominciato dai capelli.
Buckingham Palace
Non ho ancora capito del tutto la natura del legame tra i cittadini inglesi e la famiglia reale. Alcuni di loro si dichiarano completamente disinteressati alle faccende di Palazzo, altri (compresa la mia proprietaria di casa) tengono una foto della regina sul comodino.
La notizia della morte del principe Filippo è arrivata del tutto inaspettata. La mattina del 10 aprile un fiume di persone si è riversato a Buckingham Palace. Tutti in fila per fotografare il cartello esposto al cancello: un foglio formato A4 in cui la Royal Family dava il triste annuncio. Gli assembramenti sono stati così intensi che la polizia ha dovuto provvedere a rimuovere il cartello poche ore dopo l’esposizione.
Questo non ha impedito a molti di portare mazzi di fiori o di piangere davanti alla reggia. Qualcuno ha lasciato a terra fotografie, bandiere, medagliette. I miei compagni di università, tutti aspiranti giornalisti, si sono lamentati dell’eccessivo e smielato tributo che la BBC ha trasmesso per giorni sui suoi canali. Per i più giovani la monarchia è una tradizione un po’ ammuffita e ciò che succede a William, Kate o a Meghan e Harry è gossip di cui fanno volentieri a meno.
La regina ha proclamato lutto nazionale per otto giorni. Il principe Filippo aveva chiesto un funerale privato, senza “confusione” né grandi cerimonie. Penso che il suo desiderio sia stato rispettato. Tre giorni dopo la sua morte, il governo ha riaperto i pub. Al tavolo accanto al mio hanno fatto un brindisi. Una mia amica inglese mi ha detto che qua è abbastanza normale. Ai funerali, dopo la messa, si va al pub. In realtà, non so se le bevute al pub di metà aprile siano state un tributo a Filippo o la naturale conseguenza di tre mesi di lockdown…
Il pub
Cerco di approfondire la questione. Andare al pub non è un appuntamento: è un vero e proprio rito. Noi ci andiamo la sera, dopo cena, o al massimo per un aperitivo. Gli inglesi ci vanno alle cinque, anche alle quattro se non lavorano. E non mangiano nulla: bevono la loro pinta di Ale, una Lager o un sidro, e sono a posto così. Il primo sabato di maggio, secondo quanto riportato dai giornali, i britannici avrebbero bevuto circa 6 milioni di pinte di birra e 600.000 bottiglie di vino. Heineken, Amstel e Moretti hanno dovuto razionare le loro scorte, perché stavano finendo i rifornimenti.
Immaginate un viavai di uomini in giacca, con una valigetta o un portatile in mano. Dalla mia finestra affacciata su Old Street ne ho visti molti uscire dalla stazione della metro e dirigersi al pub di fronte. Bevono una birra. Poi un’altra ancora. E se piove poco importa: tirano fuori gli ombrelli e rimangono seduti. Sabato scorso ho preso un tè con due amiche. Ho aperto il mio ombrello per ripararmi dalla pioggia. Mi è sembrato talmente strano che ho scattato una foto. I miei vicini mi hanno guardato sorridendo, e hanno ricominciato a bere.
Il mercato dei fiori
Forse gli inglesi sono innamorati dei fiori quasi quanto della birra. L’ho intuito domenica, tra le bancarelle del Columbia Road Flower Market. Non c’ero mai stata per cui, nonostante la distanza a piedi da casa mia sia poca, avevo pensato di impostare il navigatore. Non ce n’è stato bisogno. Al primo incrocio, ho cominciato a vedere gente con delle piante in braccio, mazzi di girasoli in mano, palme caricate sulle spalle.
La gente del mio quartiere mi ha condotto all’interno di una vera e propria foresta. Al Columbia Road Flower Market ho trovato vasi di tutte le dimensioni, il basilico, la lavanda, i tulipani. Le ragazze (che qua non mettono collant anche se fa freddo, anzi, più fa freddo più si svestono) si accalcavano tutte attorno allo stand dei bouquet da sposa. Il proprietario dello stand li creava al momento, assemblando fiori di tipi diversi e promettendo che sarebbero durati giorni – sta a voi crederci o no. “Compra una piantina, i fiori danno felicità”, mi ha detto un’amica, che per la terza settimana di fila ha fatto incetta di piante. Non ho il pollice verde, per cui ho comprato un cactus. Dovrei riuscire a metterlo in valigia, quando tornerò a Bergamo.
Il museo
L’ultimo momento che vi voglio raccontare è arrivato un po’ dopo rispetto agli altri. Il 17 maggio, Boris Johnson ha concesso finalmente agli inglesi di riabbracciarsi. Prima, abbracci e baci tra parenti e amici erano rigorosamente banditi. Io, che sono un po’ allergica alle manifestazioni d’affetto, ho deciso di approfittare di un’altra delle aperture in programma: quella dei musei.
I musei mi hanno sempre affascinato e spesso me li immagino chiusi. Penso alla mia Bergamo e non posso fare a meno di chiedermi: “Ma del mammut di Città Alta, quando il museo resta chiuso, chi si prende cura?”. Al British Museum non sono così affezionata come al Caffi. Non ci sono mammut o fossili. Però ci sono i fregi del Partenone, c’è un Moai dell’Isola di Pasqua, ci sono delle mummie e la stele di Rosetta. Mi sono presentata al British Museum nel primo pomeriggio, il primo giorno di aperture. Pioveva (strano?), ma c’era una fila lunghissima.
Quando finalmente sono riuscita a entrare e ho pulito gli occhiali appannati, mi sono commossa. Più che guardare statue e rilievi, osservavo la gente. Una coppia di cinesi mi ha chiesto di scattare loro una foto davanti a un busto greco. Era la loro prima volta al museo e contenevano a stento l’entusiasmo. Nella galleria dedicata all’Antico Egitto ho pure assistito a una scena stranissima. Dietro a un sarcofago, una mamma dai lineamenti coreani allattava il figlio. Scommetto che nessuno di voi ha mai visto una donna allattare in un museo. Io ci sono incappata e sono arretrata sorpresa. Il papà mi ha guardato, ha sorriso e ha balbettato in un inglese un po’ stentato che erano giorni che non uscivano di casa, ma “ne avevano proprio bisogno”.
La scena mi ha fatto sorridere. Ho sempre pensato al museo come a un luogo sacro. Insomma, un anno e una pandemia dopo, niente è cambiato al British come niente probabilmente cambierà da qua a dieci anni. Quelle statue sono lì da duemila anni e forse ci resteranno altri duemila, inscalfibili. Ma quella scena, il primo giorno di apertura, mi ha fatto capire come il museo sia un luogo pieno di vita. E la vita in questi giorni a Londra è davvero cominciata di nuovo.