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Storie di una bergamasca a Londra #1: il pacco da giù, la polenta, Sanremo e altre piccole cose di chi cerca l’Italia all’estero

Racconto. A volte, per sentirsi a casa quando si è all’estero, basta poco. Una scatola di biscotti, una battuta nella nostra lingua. Anche se forse a quella battuta, nel Belpaese, non avremmo mai riso

Lettura 6 min.
(foto Marialuisa Miraglia)

Ho sempre pensato a nostalgia come a una parola bellissima. “Nostalgia” si compone di due parole greche, due parole che cinque anni di liceo classico mi hanno insegnato a ricordare. La prima, nostos, significa “ritorno”. È il ritorno a casa, quello negato dagli dèi agli eroi omerici. La seconda, algos, si traduce con “dolore”. Un dolore atroce, insopprimibile. Perché quando a casa non si può tornare si soffre.

Tenete a mente queste parole mentre leggete questo pezzo. E tenete anche a mente se vi va quella che è una mia, personalissima, definizione di nostalgia. Per me, nostalgia non è tanto rimpiangere casa, ma un sentimento più dolce e “creativo”: è cercare in tutti i modi di sentirsi a casa quando casa è lontana.

Ma veniamo ai fatti. 26 settembre 2020, anniversario di matrimonio dei miei genitori. Il giorno in cui, con due valigie più grandi di me al seguito, ho preso un volo di sola andata per Londra, aeroporto di Stansted. Dopo essermi laureata a Milano, ho scelto di frequentare un master di Giornalismo Internazionale presso la City University.

Da allora, sono passati sette mesi. Sette mesi di lockdown, riaperture, corse in metro e restauri al Big Ben. Sono partita da europea e mi sono ritrovata, il 1° gennaio, straniera in un paese che in Unione Europea non ha voluto più starci. Mi sono sentita in bilico tra due mondi. Mi sono innamorata di Londra e ho fatto mie nuove abitudini. Ma ho anche capito quanto fosse forte il mio legame con l’Italia. E con Bergamo.

Così, a volte in maniera inconsapevole, a volte desiderandolo ardentemente, ho cercato di ritrovare la casa e la terra in cui sono nata anche a 1.300 km di distanza. Perché ci sono delle piccole cose italiane che sono capaci di strapparmi un sorriso. E chissà che non possano strappare un sorriso a qualche altro “nostalgico”.

Il pacco da giù

C’è una cosa che noi bergamaschi non abbiamo mai capito del tutto, ma che molti studenti di origine meridionale ricevono frequentemente quando si trasferiscono al Nord: il famoso “pacco da giù”. Uno scatolone sigillato ricco di ogni ben di Dio.

Condivido il mio appartamento londinese con una ragazza di Bari. Per lei, il “pacco da giù” è un’istituzione. Potete immaginare l’entusiasmo con cui ha accolto un impassibile corriere della Royal Mail quando le ha consegnato il suo primo pacco, una mattina di ottobre. L’ho guardata scartare il tutto con una punta di invidia. All’interno, taralli di tutti i tipi, chili di pasta, orecchiette sottovuoto, spezie e pomodori secchi.

Mia mamma, guarda caso, mi ha telefonato proprio in quel momento. E ho imparato subito una cosa: se le mamme pugliesi sanno come preparare un pacco ricco di prelibatezze, le mamme bergamasche sentono la competizione. Al pacco di taralli e orecchiette made in Bari, mia madre ha risposto la settimana dopo con una scatola altrettanto grande piena di pasta, salame e marmellata. Rigorosamente made in Bergamo.

Ho intitolato questo mio pezzo “cercare l’Italia all’estero”. Ma non potevo non cominciare da quella volta in cui l’Italia è venuta da me in un cartone di 10 kg. E le distanze si sono un po’ accorciate.

La polenta

Ho parlato di cibo già sopra, ma intendo dedicare alla polenta un capitolo a parte. Perché per me è il piatto classico della domenica. Il piatto per cui mio nonno doveva uscire almeno dieci minuti prima dalla Messa delle 11 o “non faceva in tempo a cuocere”. Per me, la polenta è la taragna filante della festa degli alpini. È un paiolo di rame e un abbiocco post pranzo.

Ma, potete immaginarlo, Londra non è la Val Brembana. E quando mi sono avventurata, una domenica mattina, in cerca di una bella scatola di farina di mais, mi sono dovuta rassegnare a comprare un pacchetto di Valsugana. Pronta in cinque minuti. E di qualche formaggio anche solo vagamente somigliante al Branzi, neanche l’ombra.

Non per questo, comunque, ho rinunciato al mio piatto, seppure nella sua versione express. Non prendetela come un tradimento. Sappiate che ho raccontato alle mie coinquiline quello che significa per me preparare la polenta la domenica. A tal proposito, rivolgo un invito a chi cerca un po’ d’Italia all’estero. Se non trovate ciò che vi manca, parlatene. Parlate di quei sapori che rendono bella la tavola dei nonni, a Natale come a Ferragosto. Perché sì – l’ho spiegato sia alla mia coinquilina pugliese che a quella danese (che mi ha guardato un po’ più perplessa) – la polenta a Bergamo si mangia anche in piena estate.

Il mercato

Resto in tema cibo. È un grande classico. Ogni italiano all’estero, di fronte a una carbonara in busta esposta sullo scaffale del supermercato, non può fare a meno di scattare una fotografia e condividere “l’orrore” con i propri amici. I supermercati pullulano di prodotti simili. Per trovare l’Italia più autentica bisogna andare allora in un posto diverso: il Borough Market.

Il Borough Market è uno dei mercati più caratteristici della città, nonché uno dei più antichi al mondo. Si estende sotto gli archi della ferrovia del London Bridge e ospita, tra i punti più visitati dai turisti, la casa di Bridget Jones.

Mi sono avventurata al Borough prima di tornare in Italia in occasione di Pasqua. Macchina fotografica alla mano, quaderno degli appunti, ho cercato di capire da quanto tempo i tre stand italiani che frequento solitamente animassero il mercato. Il primo stand è gestito da una donna sudtirolese. Non ha tempo per parlare con me, affetta salumi a una velocità impressionante. A qualche metro di distanza, c’è un banco di formaggi. I proprietari sono tre uomini britannici che hanno viaggiato talmente tanto nel nostro Paese e vi hanno mangiato talmente bene da decidere, nel 2007, di dedicarsi esclusivamente alla vendita di formaggi italiani. Niente male, devo ammettere.

Infine, al Borough c’è il mio stand preferito. Si chiama Gastronomica, ed è uno spazio piemontese che ha piantato radici in Inghilterra da ormai 21 anni. Vende pasticcini e dolcetti sfiziosi, ma anche stracchino, ricotta, scamorza, tortellini e passata di pomodoro. Oltre alle uova di Pasqua come le vogliamo noi: belle grandi, al cioccolato fondente, con la sorpresa. Sì, perché gli inglesi nelle loro uova (piccoline, molto tristi) la sorpresa non ce la mettono.

Sono andata alla Gastronomica per scattare qualche foto, prima di scrivere questo pezzo. Sono entrata accolta da un sorriso e da un’espressione che ho sentito molte volte ma che si apprezza sempre: “fai come se fossi a casa tua”. E sono uscita con un pacco di Pan Di Stelle sotto il braccio.

Forse, casa non è un appartamento all’ottavo piano di un condominio di Londra. Forse, casa non è nemmeno la mia villetta in provincia di Bergamo. Casa è chi mi ci fa sentire, a casa.

Sanremo

Premessa: non ho mai seguito il Festival di Sanremo. Non perché non mi piaccia, semplicemente non ha mai destato in me particolare interesse. Ma immaginate due italiane bloccate e annoiate, in pieno lockdown, in un locale di pochi metri quadrati senza balcone. Qualcosa dovranno pur fare. Per vedere Sanremo, non c’è bisogno di VPN: Sanremo è in eurovisione. A Rai Play ci si accede solamente premendo un tasto.

Alla mia lista di piccole cose che mi fanno sentire a casa aggiungo allora sette sere di musica leggera (anzi, leggerissima), con una degna conclusione: dall’altro capo del telefono, a sua volta collegato a Rai Play, il nostro amico scozzese esulta per la vittoria dei Måneskin. E io, che i Måneskin non li avevo mai ascoltati, esulto con lui. “What is Sanremo? Is it like Eurovision?” ci aveva chiesto qualche giorno prima. No, Sanremo è Sanremo.

La lingua

L’ho capito dopo pochissimo tempo. Londra è piena di italiani. Camminando per andare in università, non c’è giorno che non ne abbia sentito qualcuno parlare. Ovviamente al telefono . Ovviamente a voce un po’ troppo alta, come sappiamo fare noi. Ogni settimana al supermercato ho sentito una coppia interrogarsi sul prezzo eccessivo degli spaghetti De Cecco o sull’inspiegabile assenza del sale grosso (vi giuro che non sono ancora riuscita a trovarlo, e di supermercati ne ho visti parecchi).

Londra è piena di italiani, ma ogni volta in cui ne senti uno parlare, ti sorprendi. Alzi la testa, sorridi un po’ ebete. Anche se magari, in Italia, avresti camminato a testa bassa. Anche se magari, quegli schiamazzi per strada ti avrebbero dato fastidio o a quella battuta un po’ scontata non avresti riso mai.

Bergamo

Forse, all’estero, ho cercato più spesso Bergamo di quanto abbia cercato l’Italia. Bergamo, oggi, è nota a molti come una delle città più colpite dalla pandemia di Coronavirus. Ma c’è anche altro. Pensate alla commozione che ho provato quando un amico tedesco mi ha detto “Bergamo, the city with… how do you call that? Funiculare?”. Sì, “funiculare” con la U.

“Quanto sei bella Bergamo!” recita una scritta che accoglie i viaggiatori in arrivo all’aeroporto di Orio al Serio. Non tutti la leggono. Molti viaggiatori, appena l’aereo atterra, sbirciano dal finestrino e ti chiedono “Che città è quella?” alla vista delle mura di Città Alta. Sono diretti a Milano ma a volte quando rispondi “Bergamo” con orgoglio, decidono di fermarsi. Oggi, vorrei tanto accompagnarli.

In fondo, sentire nostalgia di casa non vuol dire vivere male all’estero. Ho avuto la fortuna di viaggiare molto fin da piccola e l’ho sempre fatto con un entusiasmo tale che i miei genitori mi hanno definito “cittadina del mondo”. Londra è magica, e la mia voglia di viaggiare non ha confini. Ma d’altronde, come diceva proprio lui, l’inglese per eccellenza – Mr. Charles Dickens “ogni viaggiatore ha una sua casa, e impara ad apprezzarla di più dai suoi vagabondaggi”.

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