Il frammento era su una mensola all’entrata del negozio, un ripiano in penombra. Un mobilificio della Bergamo bene in pieno centro, dove lavoravano entrambi i miei genitori. Vero, falso, chissà: a otto-dieci anni le categorie della verità e della menzogna non sono ancora così importanti, almeno non all’inizio anni Novanta per uno nato negli Ottanta. Quella concrezione grigia, di cemento poroso, con una striscia di spray rossa che lo attraversava, un rimasuglio di graffito, brutto: altro che street art.
Il pezzo del Muro di Berlino, nella via più importante di Bergamo, fra vetrine, luci, pellicce, grandi marche, piena celebrazione del consumo. E quel brandello di Storia che ricordava chi erano i vincitori e chi gli sconfitti, una specie di reliquia a bassa devozione. Indifferente a tutti i clienti che entravano a scegliere l’ultimo modello di cucina, ma non a me.
Classe 1983, la “caduta del Muro di Berlino” l’ho vissuta a sei anni come sentito dire. Il detrito però mi chiamava, ogni volta che entravo in quel negozio. Misterioso quanto il frantume di un asteroide, perché un asteroide era stata la distruzione del Antifaschistischer Schutzwall, per dirla come i sovietici di Germania. Solo dopo avrei (avremmo) veramente capito che cosa significava.
Irradiava un cambiamento di mondo il Muro costruito e crollante, manipolava i paradigmi, dichiarava la vittoria del capitalismo ma soprattutto del libero legittimo desiderio. Azionava un processo densamente simbolico. Lo faceva al futuro e al passato, e lo fa ancora oggi: radiazione cosmica fondamentale che occupa tutto lo spazio osservabile. Big Bang in forma di spaccatura lungo la linea tremante della Storia. Un prima e un dopo, che riguarda tutti.
Era il Novecento, dici, e poi ti ritrovi un pulviscolo negli occhi, la macula di qualcosa che comprendi più ti ci allontani nel tempo e nello spazio. Il Muro assunse al mio sguardo e a quello di tanti un’impronta sempre più storica, culturale, immaginifica. Il murales in cui il leader DDR Erich Honecker bacia sulla bocca il segretario del PCUS Leonid Brežnev. Le immagini dell’abbattimento. La festa, il ricordo dei morti. Quel fatidico 9 novembre.
La Berlino dove per una generazione, la mia, è successo tanto: accadimenti in riemersione continua, fatti che hanno segnato migliaia di vite. L’inizio e la fine dell’epopea CCCP / CSI di Massimo Zamboni e Giovanni Lindo Ferretti, il bianco e nero del cielo sopra di Wim Wenders eNick Cave che nella pellicola interpreta “From Her to Eternity”. Blixa Bargeld e Andrew Chudy in arte N.U. Unruh che avviano gli Einstürzende Neubauten, la trilogia di Bowie, a Schöneberg in un appartamento con Iggy Pop, Brian Eno, l’“Achtung Baby” degli U2 e poi i racconti di McEwan e Isherwood, “Il cielo diviso” di Christa Wolf e tanto altro ancora: “Alexander Platz auf wiedersehen / c’era la neve / ci vediamo questa sera fuori dal teatro ‘Ti piace Schubert?’”.
La città del Muro è stata tutto questo: un luogo che ha diffuso visioni, una questione pulviscolare, di pezzi diffusi per il pianeta come riconoscimenti per il futuro, dichiarazioni cementizie: “Noi siamo questo”. L’Occidente.
Ho conosciuto tante persone che hanno vissuto a Berlino, ho nutrito la mia mitologia, come tanti ci sono andato per una vacanza che odorava di pellegrinaggio. Ma non ho mai incontrato qualcuno che era là in quei giorni del 1989. Poi è successo per vie traverse con Marco Grimaldi.
Marco, classe ’67, è un artista, mi ha accolto nel suo studio a Seriate. Uno spazio grande e pieno di opere sue, del padre Gianni Grimaldi e di altri. A Berlino Ovest arrivò pochi giorni prima del 9 novembre, insieme a quattro amici: Guglielmo, Pietro, Bruno, Alessandro. La classica vacanza un po’ tondelliana post diploma – all’Accademia di Brera – di quattro giovani pittori che andavano nella città artistica per eccellenza a guardare dal vero le opere nel neo espressionismo tedesco.
“Kiefer, Baselitz, Lüpertz. Già allora erano artisti molto affermati, li volevamo vedere e magari incontrare, invece abbiamo incontrato tutt’altro. Berlino era una città-mito, il luogo delle emozioni estreme, un posto carico di energia creativa. Prima di partire avevo letto un articolo in cui si raccontava che i giovani a Berlino apparivano alle tre del pomeriggio per poi vivere tutta la notte sino al mattino seguente. Io, che allora avevo ventidue anni, non aspettavo altro”.
Era ancora il tempo dell’incanto quello della fine degli anni Ottanta. La città del Muro quasi uno spazio magico dove la cortina di ferro era però la realtà: “Partimmo in treno perché non avevo il passaporto, quindi niente auto o aereo. Il viaggio fu indimenticabile, a Monaco cambiammo e arrivati a Norimberga c’era la cortina. Cambiarono il locomotore e iniziò un viaggio lentissimo, cinque ore per arrivare a Berlino. In treno passava in questi paesi irreali con delle luci arancioni, a volte addirittura passava in mezzo alle fabbriche: era l’Est, un altro mondo che non ci saremmo mai immaginati”.
Quattro ragazzi artisti che stanno per tuffarsi nella Storia. Ma con qualche dollaro in tasca: “Ad un certo punto sul treno ci venne fame, un ragazzo vendeva dei panini. Appena estraemmo dal portafoglio dieci dollari questa persona non capì più nulla, a lui quello sembrava oro”. Ed era pure il simbolo di un’altra realtà: alternativa, sognata, proprio come quella di Marco, ma dall’altra parte del Muro: “I primi centri commerciali con i ristoranti, i bar, i supermercati enormi li ho visti nella parte Ovest. Era un mondo diverso, entusiasmante, pieno di arte, di artisti, di persone che avevano voglia di provare e di rischiare”.
In città abita una signora di Sarnico, che suggerisce al quartetto quali posti visitare. “Ci disse che nell’aria c’era il sentore di qualcosa che stava per succedere. Noi non ce ne accorgevamo, eravamo appena arrivati. L’estate precedente tuttavia c’erano già state delle sommosse nella parte Est. La tv mostrava continuamente i comizi che avvenivano di là, era anomalo”.
L’anomalia per eccellenza però era il Muro: “Alla sera andammo a vederlo nella zona della porta di Brandeburgo. Lì vicino passa lo Sprea, allora vicino al fiume non c’era niente: terra, alberi, una distesa di sabbia a Est. In giro non c’era nessuno, né da una parte né dall’altra, il deserto”. E i vopos, la polizia popolare della DDR: “In quella zona del Muro c’era un punto dove era possibile guardare di là. Per questo ci accorgemmo del deserto, ma c’erano i vopos. Se tu fotografavi loro, loro fotografavano te. Una cosa incredibilmente angosciante come tutta la situazione”.
C’era fermento nell’aria, ma c’era anche un’inquietudine che Marco ricorda bene e mentre racconta sembra rivivere: “Avevamo la possibilità di passare i varchi in quanto stranieri, per andare a vedere cosa ci fosse effettivamente di là. Però non lo abbiamo fatto, temevamo di non riuscire più a tornare di qui, l’Est ci appariva come un posto oscuro, quasi misterioso”.
Poi arriva il giorno, 9 novembre 1989: “Alla sera eravamo in un locale a berci una birra, perché era una vacanza di giovani e volevamo pure divertirci dopo avere passato la giornata a visitare musei e gallerie. In questo locale c’era la radio in diffusione che trasmetteva musica. Verso le 20.30 la musica si interruppe, tutti fecero silenzio e una voce disse qualcosa in tedesco ma noi non capimmo. Era l’annuncio di apertura del Muro. Alla fine della comunicazione ci fu un grido di esultanza collettivo, la gente uscì di corsa dal locale, noi rimanemmo un po’ interdetti. Fino a quando la ragazza che stava al bancone non ci fece capire di uscire, di andare verso il Muro, perché stava succedendo qualcosa di importante”.
Dall’altra parte i vopos si schierano con dei camion caricati con un cannone. “Pensavamo di fare una brutta fine, invece capimmo quasi subito che erano idranti”. La scena invece è quella che tutti conosciamo: la gente sul Muro, qualcuno che scavalca, il clima di festa. La sfilata delle Trabant clacsonanti, un bar che dava da bere gratis a tutti. Il giorno dopo i primi valichi “e una selva di antenne delle televisioni che erano arrivate a raccontare l’evento. Il Muro era costruito con dei pannelli di cemento armato uniti con delle giunture e un tubo di cemento sopra: qualcuno cominciò a togliere questo tubo, poi le persone iniziarono ad abbattere i pannelli con le mazze, i picconi e i martelli. Era una scena incredibile, c’era una marea di gente e tutti volevano andare di là, non solo le persone dell’Est, che avevano facce sofferenti, da disgraziati, ma anche quelli dell’Ovest”.
Marco narra quello che ha vissuto con il trasporto di chi sta raccontando qualcosa che lo ha segnato. L’impressione è che sia ora qui davanti a me, ma una parte di lui sia rimasta anche là, a quei giorni. E anche se dice che Berlino “è ancora oggi una città straordinaria. Dopo il 1989 ci sono tornato altre due volte e l’ho sempre trovata più bella, ci vivrei anche, ma non è la mia città preferita”, mi pare chiaro che quello che ha vissuto sia stato un accadimento sconvolgente.
Ad un certo punto mi mostra una fotografia di Benjamin Katz che ritrae la Martin Gropius Bau, una strada larga di terra e il Muro, il tutto a Ovest. “Vedi, Berlino con il Muro era questa cosa qui: un museo d’arte contemporanea vicino ad un muro che aveva tagliato in due la città senza guardare in faccia a nulla e a nessuno”. È un’immagine che mi colpisce molto perché Katz seppe cogliere in uno scatto tutto il silenzio, la desolazione e l’assurdità di uno spazio che si potrebbe definire metafisico se non fosse una causa di sofferenza e privazione della libertà per tantissime persone.
“Quando torno in Germania, per me Berlino è sempre un’esperienza molto forte. Giro per le vie, le piazze e continuo ad additare posti che sono legati a ricordi e a situazioni che ho vissuto”.
Oggi il ricordo del Muro si presenta come un qualcosa di contraddittorio. Il Checkpoint Charlie è un feticcio per turisti che voglio scattarsi una foto, ma la città conserva parti di muro e tanti piccoli memoriali a volte seminascosti. A ricordare le oltre duecento vittime che tentarono di passare da Est a Ovest.
Sono tutte cose rimaste e parlano ancora, ognuna a proprio modo. Così ha fatto Marco con me: “Quando siamo tornati a casa il treno era pieno di gente, siamo stati in piedi per la calca almeno fino a Monaco. Fuggivano verso qualche destinazione che non capimmo bene. Fu un fatto inaspettato, mi colpì molto. Non immaginavo ci sarebbero state così tante persone che, crollato il Muro, volessero andare via da Berlino”. Chissà se anche loro, come Marco e come me, andarono via sì, ma mai del tutto.