Era il secondo dopoguerra, e Bergamo era in rapida espansione: i 95.293 abitati del 1945 divennero 108.930 del 1955. Ovunque in Italia si ricostruiva, spesso senza una legislazione urbanistica efficiente: i grandi sobborghi urbani e industriali prendevano il posto del paese agricolo in una urbanizzazione selvaggia, grigia, senza regole, scadente dal punto di vista architettonico e strutturale, priva di spazi verdi.
A Bergamo qualcuno disse no. Nel 1951 – era sindaco Ferruccio Galmozzi – il piano regolatore redatto da Giovanni Muzio, Mario Morini e Nestorio Sacchi introdusse norme molto severe contro la speculazione edilizia. In particolare, all’articolo 9 delle norme e prescrizioni per l’attuazione del piano, la molto discussa norma del cinquantesimo.
La regola prevedeva che eventuali costruzioni non potessero “coprire più di 1/50 dell’area a disposizione per un’altezza di piani 2”. Tradotto: per costruire una villa da 200 metri quadrati bisognava avere a disposizione 10mila metri di terreno. La regola si applicava a tutta la zona sottostante Città Alta: le colline, le pendici e gli spalti delle Mura veneziane, i pendii della Conca d’Oro e la zona della Benaglia. Nella zona degli orti le proprietà erano così piccole e frammentate che pochissimi riuscirono a costruire. Ed è per questo che, ancora adesso, Bergamo ha la sua cintura verde, dalla quale si ergono le Mura.
Col senno di poi, cioè settant’ anni dopo, è chiaro che fosse una decisione giusta, ma fu una scelta impopolare nell’Italia della ricostruzione. Il sindaco Tino Simoncini, che nel 1956 successe a Galmozzi, rispose alle critiche di ampia parte dell’opinione pubblica con una dichiarazione d’amore alla città:
“Abbiamo la chiara consapevolezza, noi Amministratori del Comune, di essere custodi di un patrimonio tanto prezioso quanto delicato ed intendiamo esercitarne una funzione di consapevole conservazione. Abbiamo quindi resistito a tutte le improvvisazioni che potessero comportare una alterazione dello scenario collinare così come si è conservato ed è stato fino ad oggi molto opportunamente protetto dal nostro piano regolatore generale e da altre norme di carattere panoramico, emanate a tutela dell’ambiente (...). L’incentivo edilizio era ed è rigorosamente subordinato all’interesse pubblico che, in questo caso, è rappresentato da una serie di elementi per la più parte convergenti verso una esigenza di conservazione. Ogni alterazione particolare deve inserirsi in tale esigenza ed ogni nuovo insediamento residenziale o retificazione viaria, deve introdursi col garbo di chi tutto faccia per armonizzare il più possibile la nuova presenza”.
Nella povera Bergamo del dopoguerra era chiaro quello che da altre parti non è chiaro nemmeno adesso: il verde in città non è un elemento decorativo e accessorio, ma è vitale. Una consapevolezza nata dalla struttura stessa della città: Bergamo ha una pianta palmare, dove il palmo della mano è Città Alta e le dita sono i borghi storici, inframmezzati dalla campagna. Ortaglie e campi separano i vari borghi ed entrano nel cuore stesso della città.
A questo verde si aggiunge quello della “città perduta”, nei pressi delle Mura venete, dove la città cinquecentesca venne rasa al suolo per fare spazio alle fortificazioni della Serenissima. E non solo orti e campi, ma anche boschi urbani: i boschi storici dell’Allegrezza, di Astino, Valmarina, Castagneta, che siamo così fortunati ad avere ancora. Erano boschi multifunzionali, che proteggevano sorgenti e acquedotti, fornivano paleria ai vigneti cittadini e ora custodiscono la biodiversità (sapete che i nostri boschi urbani sono habitat della rara di Lataste?), proteggono la qualità dell’aria, offrono bellezza e migliorano la salute dei cittadini. Un equilibrio fra natura e presenza umana che verrà poi salvaguardato con la creazione del Parco dei Colli, nel 1977. Ma questa è un’altra storia.
La ferrovia vide crescere la Bergamo del Novecento lungo il viale della stazione, andando a colmare il vuoto fra i due borghi principali: Pignolo e San Leonardo. Se le altre conche – come Astino o la Conca d’Oro o Valmarina – non si sono riempite di costruzioni il merito va proprio al Piano Regolatore del 1951 che, di fatto, impedì di costruire nei colli e sotto le Mura. È grazie all’Amministrazione comunale e agli architetti e urbanisti che scrissero il Piano Regolatore se i colli sono rimasti verdi, se le porte di accesso a Città Alta hanno ancora la funzione di porte, se ora abbiamo la greenway, la scarola dei colli e le Mura sono patrimonio Unesco. Merito loro e di una decisione impopolare, ma giusta.
(Si ringrazia per la consulenza Renato Ferlinghetti, professore di Geografia all’università di Bergamo)