Ho sempre pensato che essere disabile dalla nascita sia stato un bene e mi sentivo fiera del fatto che non ho mai inconsciamente e neppure sognando, immaginato di camminare come una persona normodotata.
Mi sono poi resa conto che il processo di accettazione era facilitato dal fatto che, molto semplicemente, non c’era niente da accettare. L’unico modo di camminare che ho sempre conosciuto è quello che il mio corpo mi permetteva e che per certi versi potrei definire naturale. Non c’è mai stato un “prima” fatto di abilità perdute ma solo una costante fatica nel camminare che si è acuita quando ho acquisito consapevolezza del fatto che gli altri si muovono molto più velocemente di me. Per la serie “non sono io che sono bassa, siete voi che siete troppo alti”.
Però ho sempre odiato le commiserazioni e se il mio spirito è rimasto irrimediabilmente pigro, sotto, sotto, nella coltre di lamentele e sarcasmo dietro ai quali mi nascondo ogni giorno per finta, non mi sono mai data per vinta.
Qualche tempo fa mi stavo incamminando con alcuni coinquilini verso la residenza in cui abito a Bergamo. Pioveva e per dare un tocco di novità e movimento alla trama, sono finita a terra. La mia amica che mi teneva sottobraccio si è spaventata e mentre la rassicuravo assicurandomi che non ci fosse rimasta troppo male per non essere riuscita a evitare la mia caduta rovinosa, l’altro ragazzo che stava con noi, descriveva la mia mancanza di esitazione nel risollevarmi come una lezione di vita, un gesto che dimostrava il mio coraggio e la mia determinazione. In realtà ero piuttosto infastidita. Per il fatto che stava piovendo e che mi si stavano bagnando i pantaloni e soprattutto pregavo che nella caduta non avessi rovinato l’ennesimo paio di scarpe.
Quando ero piccola ero costretta a cambiare calzature quasi ogni settimana. E mia madre che ancora adesso mi rimprovera per la mia disattenzione, sapeva rendere quei graffi, che si manifestavano ad ogni caduta, laceranti come se si trattasse di ferite fisiche. Tanto che, ancora oggi quando si rovinano, in genere dopo due minuti che le indosso, mi sento sempre un tantino delusa e impotente.
Del camminare sulle punte che ha caratterizzato la mia infanzia resta una smagliatura sul collo del piede e le miriadi di scarpe che mi comprava la mamma appena si stortavano un poco. Per felicità mia che adoravo possederne sempre di nuove e per la felicità del calzolaio che quasi era diventato uno di famiglia. Ricordo ancora l’odore del suo negozio, quella fragranza di pelletteria che è cambiata negli anni e che, come i sapori di una volta, non rimangono mai quelli di un tempo. Sembrano perdere autenticità, valore, significato.
O forse siamo noi che semplicemente crescendo disimpariamo a gioire delle piccole cose?
Perdonerete questa digressione malinconica ma con questo ultimo pezzetto di storia inizia ufficialmente il mio percorso di riabilitazione: da oggi voglio smettere di essere (prima di tutto) disabile.
“Un giorno tutto questo dolore ti sarà utile”
Non ricordo di aver mai pianto per via della mia disabilità. Certo, ho pianto per i dolori lancinanti, per frustrazione, per fatica, ma mai per la sfortuna di essere nata con una malattia incurabile che mi tormenta da quando sono nata. Non potevo permettermelo, “Devi ritenerti fortunata”, mi dicevano. E poi, ancora: “Poteva andarti peggio, pensa a chi sta più male di te”. Dentro di me li odiavo, perché si materializzavano nella mia mente immagini di situazioni peggiori che non mi facevano sentire meglio, mi facevano sentire in colpa. Mi angosciava l’idea di mettermi in quei panni e la trovavo una profonda mancanza di rispetto, sia nei miei confronti che nei confronti di altri tipi di disabilità. Era come se quella implicita gerarchia delle difficoltà mi privasse del mio diritto di piangere per il mio dolore.
C’è ancora chi, quando faccio delle battute e ironizzo sulla mia malattia, mi dice “non commiserarti, sei così intelligente, le disabilità sono altre.” Vorrei rispondere “Quali?” Ma mi fermo prima, per onorare la mia presunta intelligenza. Ogni volta immagino che il mio corpo svanisca, scompaia risucchiato da una nuvola rosa e penso al mio cervello fluttuante animato da connessioni sinaptiche che si sforzano come i piccoli omini del cartone “Esplorando il corpo umano”, rimproverando continuamente la zona grigia da cui deriva la mia disfunzione.
È come se il mio intercedere imponesse per pubblico decoro di annullare il mio corpo, di concentrarsi su altro. Ma io sono anche il mio corpo ed essere intelligente non mi basta. Sono io col mio sguardo, il mio sorriso, il mio naso, le mie braccia, le mie mani, i miei seni che definiscono la mia essenza di donna e perfino le mie gambe e i miei piedi che loro malgrado sostengono il mio passo.
Alla mia famiglia non ho mai esposto queste difficoltà. Questo bisogno di esprimere non solo voglia di vita e di rivalsa ma anche le emozioni negative, ammesso che di negatività si possa parlare.
Del resto, mia madre pensa ancora che la mia disabilità sia colpa sua. O meglio della malformazione uterina non diagnosticata che le impediva di portare a termine le gravidanze. Il feto non aveva abbastanza spazio per crescere e quindi premeva prima del tempo per uscire. Io le dico sempre che avevo fretta di svignarmela perché non sopportavo già più il fatto che parla troppo ma lei non sembra mai prendermi troppo sul serio.
Penso che per un genitore non ci sia dolore più grande che vedere il proprio figlio soffrire e lei ha fatto sempre tutto ciò che era nelle sue possibilità per cercare di alleviare il mio.
L’effetto collaterale di questa sua più o meno velata necessità di espiare una colpa che è stata solo una fatalità, è che negli anni il suo bisogno di preservarmi da qualsiasi pericolo ha dato vita ad una campana di vetro nella quale più che sentirmi protetta, mi sentivo soffocare.
Col tempo l’ho perdonata e aspetto ancora che lei faccia lo stesso. Tuttavia, c’è una cosa fondamentale che mi ha insegnato la mia disabilità: è molto più facile perdonare gli altri che farlo con sé stessi.
“Quando il dolore è l’unica cosa che hai rinunciarvi è una prova”
Qualche giorno fa, contro ogni previsione, è successo: ho pianto. Forse ho avuto per la prima volta la sensazione che ci fosse qualcuno che non si stava occupando del mio dolore ma se ne stava prendendo cura. Per la prima volta ho lasciato che qualcuno oltre a me, toccasse un punto nevralgico sulla pianta del piede sinistro che mi causa fastidio da anni. Quando cammino o quando mi rigiro nel letto dopo una giornata in cui ho chiesto alle mie gambe di fare di più di quello che il cervello consente loro. Ho pianto. Perché nei momenti di sconforto sento quel dolore come un corpo estraneo che vorrei potermi strappare a mani nude. Ho pianto in modo indecente, per le mie prerogative di persona razionale che non perde mai il controllo. Ho pianto per quel dolore ingiusto, ho pianto pensando al dispiacere di mia madre. Ho pianto perché per la prima volta non mi sono sentita sola di fronte al mio dolore e ho pianto per lasciarlo andare.
Non so cosa sia cambiato da quando ho iniziato più di un anno fa a curare questa rubrica. Probabilmente scrivere della mia disabilità mi ha fatto guadagnare in credibilità, sicuramente mi ha fatto conoscere tante persone e mi ha reso ancora più consapevole del fatto che scrivere è ciò che voglio fare da grande.
È come se ogni volta che mi sono trovata qui a raccontare di qualcosa che riguardasse la mia vita, la mia quotidianità, il mio passato e il mio presente, affiorassero ricordi, consapevolezze e dispiaceri che non sapevo di covare e che se ne stavano da qualche parte nella mia mente, in attesa di essere portati a galla, per poterci fare pace.
“Il dolore non è quello che dici ma quello che taci”
Ciò che sicuramente non è rimasto uguale è che a gennaio dell’anno scorso ero solo una studentessa magistrale con qualche esame all’attivo, mentre ora sto per conseguire una laurea in Editoria e Comunicazione visiva e digitale. Da questa complessa denominazione i miei genitori hanno elaborato che sto per laurearmi in giornalismo e così nel mio paesino di montagna in Calabria sono diventata “Carmen la giornalista”. Tra chi mi dice che sono polemica e chi pensa che mi sono montata la testa perché ormai vivo al norde la domanda che mi pongono più spesso, quando si parla di ciò che scrivo è: “E un articolo su di me quando lo fai?!” Beh, eccovi accontentati!
La verità è che sono stanca di parlare di me (figuriamoci di voi), perché ho usato la mia disabilità in modo laconico, come se fosse uno scudo. Dicendo subito che sono disabile e ripetendolo anche in situazioni fuori contesto del tipo “Non ho voglia di cucinare perché ho una disabilità motoria”, non dovevo preoccuparmi di quello che pensano gli altri che probabilmente, per timore di sbagliare o di non saperne abbastanza, credono davvero che io non sia in grado di farmi un piatto di pasta. Un po’ come quando una ragazza appena conosciuta mi chiese se posso guidare e io le ho risposto che ho le braccia troppo corte e non riesco a impugnare lo sterzo. Ci ha creduto.
Adesso però sono stufa ed è tutta colpa mia. Perché quando dico “sono disabile”, è come se comunicassi alle persone che non faccio altro che cercare di riscattarmi da questo bagaglio ingombrante e voluminoso che mi trascino dietro e che rende il cammino estenuante, faticoso, inesorabile.
Mi sono sempre chiesta quanto dolore fisico ed emotivo possa sopportare un corpo e ho provato per anni a cercare di determinare la sua capacità, il suo peso. Tutto ciò mentre all’esterno mi sforzavo di ridere delle mie difficoltà, della mia fatica, delle mie cadute.
Ora, però, è arrivato il momento di aprire quella valigia, non per alleggerirne il carico ma ascoltare il richiamo profondo di un carillon che per anni è rimasto sepolto tra le felpe e i kit da viaggio.
Oggi posso dire di essere guarita e di sentirmi pronta ad affrontare l’altro lato della medaglia, l’altro volto del dolore. Perché ho superato il mio più grande timore: adesso non ho più paura di piangere (e da settembre scriverò d’altro).