«S i stava meglio quando c’era l’apartheid» è una frase che mi è capitato più volte di sentire, durante la mia permanenza in Sudafrica. All’inizio, ascoltare quelle parole era come un pugno allo stomaco: per una persona cresciuta con il mito di Nelson Mandela, sentir rimpiangere i tempi della segregazione razziale è un tradimento dell’ideale antirazzista del padre del Sudafrica moderno.
Dopo quasi sei mesi a Città del Capo, ho capito che dietro a quelle parole ci sono tanti problemi irrisolti. Problemi che riguardano la convivenza tra etnie e classi sociali, l’economia, la cultura popolare, ma anche l’educazione, la scuola e persino la politica e il mito fondativo nazionale. Come negli anni Novanta il Sudafrica è stato il luogo di elaborazione del pensiero antirazzista moderno, così oggi è un contesto privilegiato in cui osservare il riaffiorare del razzismo e dell’odio verso il diverso, che assume un carattere misto, affiancando il desueto ideale del suprematismo razziale a ideologie che favoriscono e perpetuano la separazione sulla base della classe sociale, della religione, della provincia di nascita e persino delle origini ancestrali della propria famiglia.
E il “nuovo” razzismo sudafricano deve essere osservato attentamente soprattutto da noi europei, perché le sue forme e le sue idee si stanno radicando anche nell’emisfero Nord - e molto rapidamente.
Non è solo una questione di bianchi e di neri
Nel Vecchio Mondo, adottando un punto di vista a metà tra il masochismo e l’etnocentrismo, tendiamo a considerare il razzismo come un odio provato dalle persone bianche nei confronti di quelle con la pelle di un colore diverso. Il razzismo divide il mondo in due: i bianchi e i neri. I primi sono gli europei e tutti coloro che a loro sono assimilabili. I secondi sono tutti quelli che non rientrano nel primo gruppo, senza distinzioni etniche: è nero chi proviene dall’Africa subsahariana, dal Medio Oriente e dal Nordafrica, chi arriva dall’India, dal Bangladesh o dalle Filippine, e persino chi emigra dal Centro o Sudamerica.
I concetti di bianco e di nero hanno progressivamente perso la loro connotazione originaria - quella di colore della pelle - e indicano oggi una differenza concettuale: il bianco è il soggetto del razzismo, il nero ne è l’oggetto.
I motivi dietro a questa evoluzione sono diversi. In primo luogo, il (giusto) peso dell’epoca coloniale ancora grava sulle spalle degli europei, che tendono a considerare sé stessi come gli unici capaci di essere razzisti e tutti gli altri come delle vittime che il razzismo lo subiscono, senza poterlo provare a loro volta. Masochismo. E paternalismo, perché con questa idea sembra che i neri siano un gruppo unico e indefinito i cui membri non possono provare dell’odio razziale gli uni verso gli altri.
Questa visione dipende anche dal fatto che, dati alla mano, gli stranieri in Europa sono ancora relativamente pochi: in Italia, per esempio, i dati ISTAT dicono che i cittadini comunitari ed extra-comunitari sono circa l’8,7% del totale. In questo gruppo rientrano però sia dei bianchi (cittadini dell’Europa dell’Est, dell’Estremo Oriente e di altri Paesi europei occidentali) sia dei neri. In un contesto simile, la probabilità che un nero provi odio nei confronti di un altro nero è bassa, sia perché numericamente le loro comunità sono poche, sia perché la sociologia dice che esse tendono a rimanere etnicamente isolate: chi arriva dall’Africa subsahariana, dal Medio Oriente e così via tende a isolarsi non solo dai bianchi, ma da tutte le comunità nere diverse dalla propria.
In Sudafrica, le cose vanno molto diversamente. Mentre i bianchi sono grossomodo un gruppo unitario (che comprende i discendenti dei colonizzatori inglesi, olandesi, tedeschi e franco-ugonotti), i neri qui non esistono. Il censimento nazionale divide tra africani, coloured e asiatici-indiani. Queste tre categorie, che in Europa vengono accorpate dal punto di vista concettuale, sono ben separate tra loro: la prima identifica l’81% della popolazione, la seconda l’8% e la terza il 3% circa. Il restante 7-8% sono i bianchi eurodiscendenti.
Questa distinzione dipende da due motivi. Il primo è che questi gruppi etnici non si sono formati con le migrazioni, come invece avviene per la società multietnica europea: si tratta di persone che, alla nascita del Sudafrica moderno negli anni Novanta, erano già qui. Il background migratorio, cioè, non può essere preso a parziale discrimine come avviene tra i bianchi e i neri europei. Il secondo è che nel 1993 il Sudafrica ha riconosciuto gli Historically Disadvantaged Individuals (HDI), ovvero quelle popolazioni che avevano storicamente subito violazioni dei propri diritti, abusi, violenze e discriminazioni per motivi razziali. Inizialmente, questa categoria di persone comprendeva quelle etnie che prima del 1983 non avevano accesso al diritto di voto, ma poi è andata piano piano allargandosi, adottando una visione più comprensiva, sul modello americano, dove gli HDI includono i nativi, ma anche la comunità LGBT+. Alla fine, questa distinzione ha cementato e perpetuato la separazione etnica, almeno sulla carta, con diversi livelli di compensazione e riconoscimento politico, economico e sociale per etnie diverse, che avevano subito in modi diversi il peso dell’apartheid.
Non deve stupire, dunque, che chi ha pronunciato le terribili parole di inizio articolo non era bianco, ma coloured. In Sudafrica, il razzismo è sistemico, radicato e diffuso, e non è - al contrario di quanto un osservatore esterno potrebbe pensare - una dinamica “bianchi contro tutti” simile a quella europea. Al contrario, è un (ancor più grave, se possibile) “tutti contro tutti”, che assume connotazioni diverse a seconda dell’etnia della persona razzista.
Per i bianchi, si tratta di un paternalismo coloniale e sfruttatore: i coloured sono generalmente considerati “gangster” e criminali, mentre gli africani vengono visti come fannulloni, inetti, parassiti sociali illetterati incapaci di svolgere qualsiasi lavoro, e per questo relegati alla fascia più umile della popolazione. «Sai perché è bello qui? Perché io, con uno stipendio medio, posso permettermi una cameriera e un giardiniere, perché i neri li paghiamo poco», mi ha detto un signore sulla sessantina conosciuto per caso mentre passeggiavo in un’azienda vinicola. «Non paghiamo la nostra receptionist: le diamo vitto e alloggio. A fine stagione avrà un piccolo stipendio e potrà farsi una vacanza a Città del Capo: basta poco per farli contenti, i neri», mi hanno confidato i due (giovanissimi) gestori di un lodge nel bel mezzo del Karoo. Per i neri e per i coloured, il razzismo nei confronti dei bianchi è figlio di un odio ancestrale verso una popolazione che ancora viene considerata occupante, colonizzatrice e usurpatrice, se non altro perché le leve del potere economico restano tutte in mani bianche, anche a trent’anni dalla fine dell’apartheid.
La guerra tra gli ultimi e i penultimi
Poi c’è il razzismo dei neri contro i coloured e viceversa. È una forma di discriminazione reciproca che unisce etnia e condizioni economiche: dopo l’apartheid, i coloured (che, per inciso, sono tutti coloro che hanno una discendenza mista, cioè parzialmente africani e parzialmente bianchi o asiatici) sono riusciti a risalire la piramide sociale, almeno in parte. Se gli strati alti e medio-alti della popolazione restano ancora appannaggio dei bianchi (e degli arabi), i coloured hanno occupato gli interstizi del ceto medio e medio-basso, creandosi una classe sociale intermedia tra gli africani e i bianchi. In un contesto simile, i coloured ambiscono a risalire ulteriormente la china e temono di cadere nuovamente in basso a causa del peggioramento dell’economia: il razzismo contro gli africani è una questione sociale, una rivendicazione di superiorità rispetto a chi sta al di sotto e un’ambizione di essere riconosciuti come pari da chi sta al di sopra.
Al contempo, i neri ambiscono allo stesso stile di vita dei coloured e domandano di ricevere quella ricchezza e quel benessere che gli erano stati promessi con la fine dell’apartheid e che non sono mai arrivati. Se i bianchi vengono considerati come gli usurpatori ancestrali della ricchezza sudafricana, i coloured sono coloro che se la stanno intascando nel presente, ed è per questo che vengono odiati ancor più visceralmente. In altre parole, il razzismo degli africani contro i coloured è ancora più marcato di quello “freddo” di entrambi questi gruppi contro i bianchi. Per un bianco, entrare in una township è un’esperienza inquietante: gli sguardi dei suoi abitanti fanno immediatamente capire che quello non è un posto per gli europei e i loro discendenti. Per un coloured, però, è ancora peggio.
Questo odio è stato fomentato negli anni in diversi modi, soprattutto per la perpetuazione di un sistema politico essenzialmente basato su partiti etnici. Molti partiti su base etnica hanno delle vere e proprie clientele in alcune province, e lo stesso vale per i politici di spicco dei partiti più grandi: l’ex-Presidente del Sudafrica Jakob Zuma, membro dell’ANC (il partito di Mandela) che ha governato il Paese dal 2009 al 2017 prima di essere arrestato per corruzione, è stato più volte accusato di usare sistemi redistributivi iniqui per favorire la popolazione africana e gli etnici Zulu al fine di ottenere i loro voti.
A farne le spese sono stati prima i coloured, poi le casse del Paese e, infine, gli africani e gli Zulu stessi. Le promesse di ricchezza di Zuma non si sono avverate e durante il suo governo le condizioni dei neri sudafricani non hanno fatto altro che peggiorare, mentre le divisioni sociali si sono acuite. In passato, in Sudafrica si è quasi arrivati all’espulsione totale dei bianchi, come era successo in Zimbabwe in occasione della riforma redistributiva delle terre del 2000: alla fine i bianchi sono rimasti dov’erano, ma a molti africani è stato promesso che avrebbero potuto occupare i loro posti di lavori e le loro case, innescando ulteriori tensioni e fomentando l’odio reciproco tra bianchi e neri. I coloured, che non sono numerosi come gli africani o ricchi come i bianchi, sono rimasti ai margini delle clientele politiche, sviluppando un odio viscerale verso il sistema e le etnie che lo monopolizzavano. In fin dei conti, l’odio reciproco tra coloured e neri non è altro che una guerra tra poveri, tra gli ultimi e i penultimi della società sudafricana, che si è riaccesa negli ultimi anni sulla scia del favoritismo accordato dai partiti di governo verso questa o quella popolazione, che a tratti assume dei toni semplicemente discriminatori.
E dunque, i coloured arrivano a rimpiangere l’apartheid perché la segregazione teneva i neri lontani e sembrava rendere i bianchi più raggiungibili, economicamente parlando. La fine del sistema discriminatorio a guida bianca ha coinciso con un peggioramento generale dell’economia, con una contrazione dei salari e con un allungamento delle distanze tra ceto basso e ceto medio. Chi ne ha fatto maggiormente le spese sono stati i coloured , perché erano gli unici “non-bianchi” per cui l’ascensore sociale funzionava. Per i neri, lo stacco è stato meno marcato: l’ascensore sociale non funzionava prima dell’apartheid e non ha certo iniziato a funzionare dopo.
Nella sostanza, a trent’anni dalla fine dell’apartheid le cose in Sudafrica sono cambiate poco. Dal punto di vista urbanistico e abitativo, i quartieri bianchi sono separati da quelli coloured e dalle township nere: a dividerli ci sono solitamente un prato, un fossato, un muretto e un altro prato, oppure un’autostrada. Gli spazi abitativi misti sono pochi, e perlopiù riguardano quartieri residenziali di recente costruzione dove i coloured (relativamente) arricchiti si mescolano a bianchi, indiani e asiatici. È ben difficile vedere neri e coloured vivere vicini, e ancor meno comune è che un nero sudafricano possa permettersi una casa in un quartiere bianco.
A tutto ciò si somma la naturale mancanza di luoghi di incontro e di socializzazione come piazze, biblioteche e centri ricreativi, sostituiti da non-luoghi come centri commerciali e mall, anch’essi spesso segregati sulla base dei prezzi medi dei negozi. Infine, anche la scuola resta di fatto segregata: poiché gli istituti raccolgono studenti dall’immediato circondario e poiché i quartieri sono etnicamente omogenei, i bianchi vanno a scuola con i bianchi, i neri con i neri e i coloured con i coloured. E, ovviamente, il colore della pelle degli studenti influisce sui finanziamenti destinati alle scuole.
Il Paese della diffidenza
Il razzismo sudafricano è dunque diverso dal nostro, radicato nel tessuto sociale nazionale e diversificato a seconda della regione in cui ci si trova. Se Città del Capo e le sue periferie sono zone relativamente più progressiste, recandovi verso l’entroterra o il Northern Cape, al confine con Botswana e Namibia, non avrete problemi a trovare neo-nazisti e fanatici religiosi ben disposti a farsi una chiacchierata con voi su temi che in Europa farebbero sollevare ben più di qualche sopracciglio. La diffusione di queste idee aberranti dipende in larga parte dal fallimentare sistema scolastico locale, specie nelle aree meno popolate, nonché dalla frammentazione etnica e religiosa delle istituzioni e delle risorse.
Anche nella più piccola città del Northern Cape, per esempio, troverete quattro, cinque, dieci chiese cristiane di varie denominazioni, insieme a moschee, sale per i culti tradizionali (che spesso si svolgono all’aperto) e persino sinagoghe. In un mondo in cui tutto, persino il culto, è diviso su basi etniche, è difficile formare una “social catena”, ma è impensabile anche solo pensare di promuovere l’integrazione e l’accettazione reciproca tra gruppi sociali. In fin dei conti, dopo sei mesi a Città del Capo mi sono reso conto che il problema di questo Paese sta essenzialmente nelle sue radici: nato come una democrazia moderna e composita, con tre capitali, undici lingue ufficiali e svariate etnie riconosciute, oggi il Sudafrica è un Paese dove la diffidenza regna sovrana e dove le divisioni - etniche, economiche, culturali, geografiche e religiose - sono tornate a riemergere. Anzi: non ne sono mai andate.