Quando ho parlato con il nostro caporedattore Luca Barachetti di cosa affrontare in questo articolo mi ha chiesto: “Hai mai subito discriminazioni in quanto donna? E in quanto donna disabile?” Queste domande mi hanno un po’ colta alla sprovvista. Non mi piace ridefinire le mie categorie, smontare le mie certezze e mettere in discussione ciò che credo sia vero e giusto per me. Ho sempre avuto molto chiaro il fatto di essere una bambina diversa dagli altri prima, una ragazza con delle difficoltà, poi. E chi era lui per mettermi di fronte con quella domanda al fatto che sono una donna? Un uomo ovviamente!
C’è una cosa che faccio sempre: colgo lo sguardo dei passanti che mi fissano mentre cammino. Mi guardano i piedi, tutt’al più le gambe, sperando di trovare lì le loro risposte. Io li seguo, con la coda dell’occhio, finché posso. Quando ero adolescente c’era un po’ di masochismo in questa scelta. Poi ho iniziato a capirli. A comprendere che in fondo è anche giusto che guardino, che si abituino al fatto che esistono semplicemente modi diversi di camminare, di pesare i passi. E magari un giorno – magari – la smettano di guardare con quell’aria mista di stupore e sorpresa. Mentre io immagino spuntare un omino da qualche parte, lì nella zona rossa della mia disfunzione, che dica loro: sì, bravi tutti, non cammino bene.
Non mi sono mai pensata come donna o meglio, ci ho messo del tempo. Quando sei piccolo e devi affrontare dei dolori fisici continui e costanti, non capisci perché e te la prendi con gli altri. Con tua madre che ti porta tutte le mattine a fare fisioterapia. E con la tua fisioterapista che sta lì a dirti che devi fare meglio, devi stare in equilibrio e devi sentire i muscoli tirare – allora lì, solo quando il dolore ti penetra anche le ossa, puoi fermarti, ma solo per qualche secondo, perché significa che stai facendo bene ma che puoi fare di più.
Avere una disabilità però vuol dire accettare soprattutto che non possiamo prendercela sempre con gli altri, cioè con il sistema che non funziona ed esige di vederci come individui performanti. Essere disabile significa che quando sono arrabbiata e vorrei correre ininterrottamente per chilometri e chilometri, non posso farlo. Perché mi stancherei dopo due metri. E purtroppo, o per fortuna, non è colpa di nessuno.
La prima volta che mi vidi, non guardai
Sembrerà paradossale ma pur essendo cosciente della mia diversità, per molto tempo non mi sono mai osservata mentre camminavo. Non so se dipendesse tutto dal caso o dalla convinzione della bambina che ero. Però è chiaro che non guardandomi, almeno potevo credere di essere come gli altri. Il rovescio della medaglia è che la mia disabilità è “invisibile” in posizione di riposo, aspetto non secondario che mi ha messo spesso in situazioni alquanto grottesche. Come quella volta in cui, mentre ero comodamente seduta nel posto riservato, il conducente del bus mi ha intimato: “Questo posto è per le persone disabili!” “Ma io sono disabile!” “… (silenzio imbarazzato)”. In queste situazioni tutto rimane sospeso tra il mio ghigno interiore compiaciuto e la faccia imbambolata della persona incappata in questo spiacevole malinteso – che sta pensando se è vera questa cosa dello scomparire schioccando le dita.
Questione di etichette
“Le etichette sono importanti per i vivi, indicano il modo in cui le persone vedono sé stesse. Le etichette sono ciò che ti impedisce di bere la candeggina.” (dalla serie tv “Dear White People”)
Vado molto fiera della mia collocazione sociale. Spesso, anche quando mi trovo sul bus a Bergamo e riesco miracolosamente a sedermi, leggo la targhetta con su scritto “Riservato ai minorati non deambulanti” con annesso riferimento legislativo, anno 1970. Mi piace pensare che, qualsiasi cosa accada, avrò sempre il mio posto nel mondo, il mio ruolo, l’etichetta invisibile sulla mia fronte, che scandisce ogni mio passo: minorata non deambulante.
Inoltre, il modo in cui cammino definisce in anticipo le mie interazioni. Le persone sanno cosa aspettarsi, ovvero che, avendo delle difficoltà motorie, in un modo o nell’altro avrò bisogno di aiuto. Ma non si tratta di ignoranza, bensì di un meccanismo psicologico, in base al quale il fisico della persona (corporatura, forma del volto, colore occhi) è tra i primi aspetti a essere usati per inferire informazioni (stato di salute, età, genere, etc).
Ecco perché fin dai primi istanti, quando conosco qualcuno, metto le mani avanti. Scherzo sulla mia condizione in modo brutale, utilizzando anche parole forti per chiarire subito che sono molto consapevole dei miei limiti e proprio per questo non ammetto che me ne vengano attribuiti altri. Mi ci sono adagiata in modo diverso, non li ho usati come scuse. Li ho arredati perché sia sempre chiaro che ho smesso di odiarli, e anzi li sfrutto a mio vantaggio. Per tentare il più possibile di scardinare pregiudizi e costringere gli altri a guardarli, senza aver paura.
Per esempio, qualche mese fa, di rientro dalle vacanze di Natale, ho preso il taxi data l’ora tarda per rientrare a casa. La sorte o meglio il tipo dell’assistenza disabili all’aeroporto, mi ha affidata a un tassista che aveva l’aspetto di un nonnino. Al primo impatto mi ha trasmesso un forte senso di protezione. Abbiamo iniziato una conversazione di circostanza, gli ho detto che sono una fuorisede e lui preso da un impeto di sensibilità, riferendosi alla mia disabilità e indicando le mie gambe mi ha chiesto: “resterai così per sempre?!”. E io: “va beh, c’è di peggio!” (non trovate anche voi?!). Come dimenticare, qualche giorno dopo, l’autista che si è fermato a pochi metri dalla fermata, aprendo le porte con un imbarazzante “L’ho fatto solo per te!” e ancora mi chiedo se si riferisse al mio indiscutibile fascino o al mio maldestro tentativo di inseguirlo.
Oltre alle gambe c’è di più?
“Donna” per me è una parola importante. E addosso a me la sono sempre vista un po’ ridicola, svilita per il mio modo goffo di muovermi e parlare. Cioè, per farla breve, di stare al mondo. Soprattutto, come potevo io sentirmi donna se non riuscivo neanche a sfiorare le mie gambe per paura di rivivere certe sensazioni. Per paura che, quelle ferite, dietro ai talloni, che poi ho imparato a chiamare “solo” cicatrici, si aprissero riportando fuori quel carico di dolore che ho rinominato nella cartella “ricordi d’infanzia”.
Tuttavia poi mi sono chiesta: la femminilità si esprime solo attraverso quell’involucro esterno che chiamiamo corpo? Dipende tutto da un paio di tacchi, da un vestito, da uno spacco?
Ho sempre preferito la comodità all’apparenza e non solo per ragioni funzionali. Semplicemente non me ne fregava niente di sforzarmi di essere come non sono. Ho capito che la sicurezza dipende da ciò che hai dentro, da una femminilità molto più sottile e raffinata di quella che siamo abituati a vedere sugli schermi e sulle riviste.
Dunque, se dovessi rispondere alla domanda iniziale, ho subito delle discriminazioni? Sì. Ma non derivano dal maschilismo, quanto dal fatto che la disabilità, spesso, diventa un tratto talmente preponderante da prevalere anche sull’identità di genere, sulla sessualità, sul diritto di sentirsi donne e uomini.
Siamo disabili, sì, ma oltre ai nostri handicap c’è di più. C’è il bisogno di sentirsi amati, attraenti, desiderati e se la vostra mente è troppo impegnata a giudicare una sedia a rotelle o su un modo un po’ incerto di camminare, il limite è solo vostro, perché io oggi, mi sento bellissima. E smettetela di dirmi che sono una ragazza in gamba.