Molte persone, ormai, sanno che la risposta alla «domanda fondamentale sulla vita l’universo e tutto quanto» è 42. Senza dilungarmi troppo sull’opera di Douglas Adams, il senso di assurdo attorno a cui ruota tutta la narrazione della “trilogia in cinque parti” della «Guida galattica per autostoppisti» nasce proprio dall’avere una risposta di cui si ignora la domanda.
Nelle maglie della trama, si trova un gruppo di scienziati (i cui componenti sono in realtà la proiezione di una razza di esseri super-intelligenti) costruisce Pensiero Profondo, il secondo più grande computer di tutti i tempi e di tutti gli spazi, per ottenere la risposta alla «Domanda Fondamentale sulla Vita, sull’Universo e Tutto quanto». Dopo un’elaborazione durata sette milioni e mezzo di anni, il computer fornisce come responso unicamente «42», lasciando prima smarriti e immediatamente poi sbigottiti i committenti dell’impresa.
Restando in ambito letterario, qualche anno fa, lessi un libro molto particolare, «Interrogative mood» di Padgett Powell un romanzo composto di sole domande. Potrebbe sembrare un vuoto esperimento letterario, invece ogni domanda invoglia a proseguire e, in fondo, crea una trama implicita che rende la lettura trascinante, e il libro non solo un esercizio intellettuale. Forse proprio per questo potere delle domande di fare da motore.
Le domande, insomma, sembrano essere molto più importanti e interessanti delle risposte.
Tendenzialmente diffido da chi sembra avere tutte le risposte, forse per carattere, forse per deformazione professionale. Da appassionato del viaggio a piedi, simbolicamente, vedo in ogni domanda un invito a fare un passo in avanti, laddove una risposta tendenzialmente fermerebbe, arresterebbe il “cammino”.
Come psicoterapeuta, poi, raramente ho delle risposte, e di conseguenza difficilmente ne posso dare.
Una vecchia vignetta, credo pubblicata sulla Settimana Enigmistica, illustrava una sorta di “fast food” psicoterapeutico, una sorta “Psycho drive”, in cui l’avventore si affacciava a uno sportello in cui un uomo (con tanto di barba, occhiali e pipa, mi pare di ricordare), diceva «È tutta colpa di sua madre, avanti il prossimo». Ripeto: in psicoterapia è molto più importante fare buone domande, che avere risposte pronte da dare. Come scrivevo, le risposte fermano, bloccano, mentre le domande invitano alla ricerca, a fare un passo avanti, stimolano la curiosità. Come un viaggio, in cui è più importante il percorso che l’arrivo in sé (e chi ha fatto l’esperienza di un viaggio a piedi lo sa bene).
Ciò che cura, è l’esperienza maturata cercando la risposta, più che conoscere la risposta in sé. Il viaggio, l’esplorazione, il cammino simbolico dell’individuazione, il percorso verso il Sé, ci porta a diventare ciò che siamo, e lo apprendiamo passo dopo passo. Certo, a volte in questo tipo di viaggio, compaiono degli “insight”, una sorta di lampo, che illumina un aspetto della propria vita psichica, fa luce su qualcosa che non vedevamo perché nascosto nell’ombra, fuori dalla coscienza. Ma nella mia esperienza sono portato a vedere questi fenomeni come “pietre miliari”, più che come risposte o punti di arrivo, forse sono tappe intermedie? Certamente, come in ogni viaggio, se si incontra una località in cui si sta bene, si può decidere di fermarsi lì per quanto si vuole, non è detto che il viaggio vada fatto in una tirata unica! Fuor di metafora: diventare ciò che siamo, non è un percorso lineare, e neanche psicoterapia e analisi lo sono, ci si può fermare, prendersi delle pause e lasciar sedimentare ciò che si è realizzato in alcuni passaggi, decidere di fermarsi dove si è, riprendere un cammino interrotto, eventualmente tornare sui propri passi e recuperare qualcosa che si era lasciato in sospeso. C’è libertà, insomma.
Nel mio lavoro di psicoterapeuta, gran parte delle domande che incontro, possono essere riassunte, o comunque riconducono a queste due domande di base, all’apparenza banali, ma in realtà fondamentali per il proprio percorso di vita, e sono «Chi sei?» e «Cosa vuoi?».
Sono domande antichissime: all’ingresso del tempio dove si consultava l’oracolo di Delfi era scolpito il monito «Conosci te stesso»: era il passaggio necessario per poter fare domande ma soprattutto per dare un senso alle risposte che si sarebbero ottenute. Tutta la tragedia di Edipo nasce dal non sapere chi è (che nel suo caso, molto alla bergamasca, voleva dire sapere di chi fosse figlio).
Sono domande che in qualche modo rivolge anche un altro nume tutelare del mio essere terapeuta: il Bruco (o Brucaliffo) del Paese delle Meraviglie. Appena vede Alice, le chiede «Chi sei?», prima di affrontare ciò che in fondo è un discorso sulla memoria e sull’identità. Le avventure di Alice probabilmente ci insegnano che l’identità non significa essere sempre identici: non è una caratteristica rigida e fissa ma è qualcosa di mutevole. Come più o meno scriveva Percy Bysshe Shelley, «Niente può durare, se non la mutabilità». Un altro personaggio peculiare che Alice incontra nel suo viaggio è il Gatto dello Cheshire (o Stregatto) che, chiedendo a Alice dove fosse diretta, in qualche modo le stava chiedendo cosa volesse. Trovo bellissima la risposta in cui le dice che poco importa quale strada prendere se non si sa dove si vuole arrivare: rappresenta bene lo stallo in cui spesso capita di trovarsi. Conoscere e saper capire cosa desideriamo è un ottimo motore e un’ottima bussola del nostro cammino psichico. Qualche tempo fa paragonavo il desiderio a un muscolo da allenare, ma una recente intuizione mi ha portato alla sensazione che probabilmente, più che un muscolo, il desiderio è un senso da sviluppare, come possiamo esercitarci ad affinare olfatto e gusto, per esempio. Si tratta di un senso (come vista e udito, per intenderci), in quanto sento che coinvolge la propriocezione, la percezione interna in particolare del piacere; ma è anche un senso, in quanto ci indica anche la direzione da prendere, può orientare il nostro movimento (non dimentichiamo che il termine “desiderio” include la parola “sidera”, che rimanda al cielo stellato, usato da sempre per orientarsi).
Cosa vogliamo, insomma, può essere la bussola che ci dà una direzione, dove il desiderio è qualcosa che considero diverso e più profondo da ciò che possiamo definire “voglia” o “capriccio”, e ha sia una funzione di energia dinamica che di obiettivo.
E la risposta al chi siamo è data dal viaggio stesso, non dalla sua destinazione.
Cosa risponderebbe una ghianda alla domanda «chi sei?»: «ghianda» o «quercia»?