L’8 novembre 2021, il Ministro degli Esteri di Tuvalu Simon Kofe invia alla COP26 di Glasgow un videomessaggio destinato a dare scalpore. Non per i contenuti del suo discorso, bensì per il luogo da cui viene pronunciato: Kofe parla immerso fino alle ginocchia nell’Oceano Pacifico, su un podio (con tanto di bandiere del suo Paese e delle Nazioni Unite) per metà sprofondato nella sabbia di un atollo polinesiano.
Accanto al Ministro degli Esteri di Tuvalu - vestito con giacca, cravatta e pantaloni rigirati fino alle ginocchia - si scorge in alcune foto ufficiali un’altra figura, quest’ultima immersa in acqua fino al bacino. Lo scopo del filmato è chiaro: ricordare alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che le ripercussioni del riscaldamento globale si stanno già facendo sentire, e che ci sono nazioni che le subiscono molto più di altre. I Paesi per i quali l’innalzamento delle temperature del pianeta rappresenta una minaccia esistenziale sono proprio le piccole isole nel Pacifico: i dati raccolti dal World Economic Forum ci dicono che gli oceani si sono innalzati di circa 10 centimetri tra il 1993 e il 2024, e che dobbiamo aspettarci un incremento fino a due metri nel prossimo futuro, specie qualora non riuscissimo a porre un freno al cambiamento climatico. Un bel problema per nazioni come Tuvalu, Kiribati e Tonga, la cui altitudine media è rispettivamente di 4, 7 e 28 metri sul livello del mare. Ma come possono queste piccolissime nazioni porre fine a un problema globale come quello del climate change?
L’Australia ha offerto un visto ai “migranti climatici” di Tuvalu
Una risposta cinica e disincantata a questo interrogativo è che i Paesi insulari del Pacifico non hanno sufficiente potere per fare qualcosa e sono inevitabilmente destinati a scomparire inghiottiti dall’Oceano. In futuro, infatti, le uniche isole che potrebbero restare al di sopra delle acque dovrebbero essere quelle che compongono l’arcipelago di Vanuatu: il loro carattere montuoso, con picchi che sfiorano i 1.900 metri, potrebbe salvarle.
Anche per questi territori, però, il cambiamento climatico potrebbe rivelarsi devastante: se diamo un’occhiata alle mappe delle isole del Pacifico, infatti, notiamo che tutti i loro centri abitati sono sulla costa. Port Villa, la capitale di Vanuatu, è - come ci dice il suo stesso nome - un porto sul Pacifico; Funafuti, la capitale di Tuvalu, è una striscia di terra circondata dal mare su tutti i lati; Nuku’alofa, il centro abitato più grande di Tonga, si trova su una penisola: a sinistra c’è l’oceano, a destra una baia. Un innalzamento del livello del mare di pochi metri, insomma, rischierebbe di mandare sott’acqua intere città con porti, aeroporti e strade, costringendo centinaia di migliaia di persone a spostarsi verso l’entroterra, verso le (poche) montagne o, più facilmente, verso l’estero. Non è un caso che, lo scorso novembre, l’Australia abbia offerto un visto ai “migranti climatici” provenienti da Tuvalu, riconoscendo per la prima volta lo status di chi migra per ragioni climatiche e spalancando le porte per un programma che, se venisse attuato su più larga scala, potrebbe rivelarsi un vero e proprio “salvagente” per la regione del Pacifico.
Dall’ultima volta che Guterrez incontrò i leader dei paesi del Pacifico, nel 2019, nulla è stato fatto
Ma l’espatrio in massa dei cittadini di Tuvalu, Tonga, Palau, Kiribati, Vanuatu e via dicendo non è la soluzione migliore. Da una parte, ciò significa arrendersi ai cambiamenti climatici, vederli come qualcosa di inevitabile. Dall’altra, lasciare che gli oceani si alzino ancora di più vuol dire causare la perdita di ecosistemi naturali incontaminati (o quasi) come quelli delle isole del Pacifico, ma anche innescare la trasformazione delle culture e delle tradizioni polinesiane in piccole sacche diasporiche all’estero, dove potrebbero finire per perdersi nel tempo. Per questo, dal 26 al 30 agosto i leader di 17 Paesi appartenenti all’area dell’Asia-Pacifico si sono incontrati nell’annuale Pacific Islands Forum (PIF), ormai giunto alla sua 53esima edizione e il cui obiettivo è quello di far dialogare le potenze regionali sui problemi comuni, a partire da quelli definiti “vitali” come il cambiamento climatico. Quest’anno, al meeting ha partecipato anche il Segretario Generale dell’ONU António Guterres: l’ultima volta che Guterres aveva incontrato i leader dei Paesi del Pacifico, nel 2019, la questione dello sprofondamento delle terre emerse era finita su tutti i giornali, al punto che persino il TIME le aveva dedicato una copertina, che mostrava il Numero Uno delle Nazioni Unite con l’acqua fino alle ginocchia e che riportava “il nostro pianeta sta affondando”. Un titolo di richiamo, senza alcun dubbio.
Ma da allora i passi avanti sono stati ben pochi. Non a caso, due anni dopo una strategia comunicativa del tutto simile è stata adottata nel già citato videomessaggio di Tuvalu alla COP26 di Glasgow. Anche in questo caso, i grandi della Terra non hanno agito, se non a parole: tante promesse, ma nessun progetto concreto.
«È compito di questi stati insulari raccogliere la leadership nella lotta al cambiamento climatico». Ma come?
Su questa stessa falsariga sembra posizionarsi anche il meeting degli ultimi giorni. Nonostante le risolute richieste di azioni concrete della comunità internazionale avanzate dal Primo Ministro di Tonga Siaosi Sovaleni - «abbiamo bisogno di risultati tangibili e di progetti concreti, dobbiamo passare dalla deliberazione delle politiche alla loro implementazione», aveva detto qualche mese fa - né l’ONU né le grandi potenze sembrano essere intenzionate a muoversi per fermare l’innalzamento del livello dei mari. Il discorso del Segretario delle Nazioni Unite António Guterres al PIF non ha impressionato i 1.000 diplomatici che hanno raggiunto Nuku’alofa negli scorsi giorni: «Se salviamo il Pacifico, salviamo il mondo intero. Gli Stati insulari del Pacifico hanno il dovere morale e l’imperativo pratico di raccogliere la leadership nella lotta al cambiamento climatico a livello globale», ha detto Guterres. Ma come si può chiedere ad un gruppo di Paesi che, sommati tra loro, hanno un PIL di qualche decina di miliardi di Dollari (l’Italia da sola tocca i 2.000 miliardi) di fare da aprifila in una battaglia enorme e costosa come quella contro il riscaldamento globale? Anche il discorso dei delegati dell’OMS durante il Forum non è stato accolto in modo particolarmente positivo: «Una recente ricerca effettuata su 76 ospedali in 14 isole del Pacifico ha rilevato che il 62% di essi si trova a meno di 500 metri dalla costa, da un lago o da un fiume, perciò può essere soggetto ad allagamenti». La soluzione, per l’OMS, non è quella di impegnarsi per evitare l’innalzamento dei mari, ma il semplice spostamento degli ospedali: «A Tonga, siamo riusciti a trasferire l’ospedale di Ha’apai dalla costa al punto più alto dell’isola», spiega l’agenzia dell’ONU. Che però non fa menzione del fatto che spostare gli ospedali più in alto significa anche allontanarli dai centri abitati, renderli meno accessibili e, spesso, lasciare la popolazione in balìa dell’innalzamento dei livelli marittimi: se tutti saranno costretti a emigrare per via del cambiamento climatico, a Tonga non resterà nessuno da curare, e i nuovi ospedali “di montagna” non serviranno a nulla.
Le (esigue) donazioni di Arabia, Commonwealth e Australia
Quindi il 53esimo Pacific Island Meeting è stato un fallimento? Sì e no. Da una parte, nessuno si aspettava che l’incontro avrebbe portato a impegni pratici per il salvataggio dei Paesi insulari del Pacifico: finché non ci sarà un accordo tra i grandi inquinanti globali - Stati Uniti, India e Cina per primi - non si potrà fare nulla di concreto per Tuvalu, Palau, Tonga e Vanuatu. E, se mai un compromesso verrà raggiunto, la cornice in cui verrà ufficializzato sarà quella di una COP, non certo una conferenza regionale limitata a poche potenze. Dall’altra parte, sono sempre più gli Stati che, per ragioni eminentemente strategiche, si stanno interessando alla sicurezza dei piccoli arcipelaghi del Pacifico: Arab News, per esempio, riporta che l’Arabia Saudita - l’estrattore di petrolio per eccellenza - ha inviato alcuni delegati al PIF; al contempo, il Commonwealth britannico (di cui alcuni Paesi insulari ancora fanno parte) afferma di aver siglato un accordo per la limitazione dei cambiamenti climatici e dei loro effetti sul Pacifico. Lo stesso ha fatto anche l’Azerbaigian (un altro Paese estrattore di combustibili fossili), mentre gli Stati Uniti hanno partecipato all’incontro, pur senza assumere posizioni particolarmente nette di fronte alle richieste avanzate dai delegati di Tonga e Tuvalu. Infine, la ABC australiana riporta che Canberra ha stanziato ben 100 milioni di dollari, che verranno devoluti ad un fondo per la prevenzione dei danni causati dai cambiamenti climatici nei Paesi del Pacifico. Anche l’Arabia Saudita ha fatto un’ingente donazione, pari a 50 milioni di Dollari, ma l’obiettivo finale di 500 milioni entro il 2026 sembra essere destinato a sfumare.
Gli aiuti cinesi in cambio dei diritti di pesca e di spazio per le basi militari
In ogni caso, non pensate che le mosse dei Paesi che hanno partecipato al PIF siano dettate dalla generosità nei confronti degli Stati che stanno affondando. Dietro ci sono ragioni puramente politiche. Quando l’Australia ha varato il suo piano per i rifugiati climatici, per esempio, ha chiesto in cambio a Tonga di cederle buona parte della propria sovranità nel campo della sicurezza internazionale: ogni decisione in tal senso dovrà essere approvata da Canberra prima di diventare operativa. Il fatto che i principali finanziatori del fondo anti-climate change nel Pacifico siano due strettissimi alleati degli Stati Uniti la dice lunga. L’Occidente vuole utilizzare la lotta al cambiamento climatico per guadagnarsi il favore degli Stati insulari del Pacifico, contrastando una presenza cinese nella regione che si sta facendo sempre più preponderante ma che passa per binari completamente diversi.
Il Global Times, una testata in inglese che ha sede a Hong Kong, descrive la politica di Pechino nell’area come una serie di aiuti a pioggia contro la povertà e a favore dello sviluppo, con particolare attenzione alle infrastrutture, ai servizi e al restauro degli edifici danneggiati dal cambiamento climatico. Persino la location scelta per il Pacific Islands Forum - lo stadio di un liceo di Tonga - è stata costruita da un’azienda cinese. Con questi aiuti, la Cina punta a ottenere i diritti di pesca nelle acque dei Paesi del Pacifico e, soprattutto, ad accaparrarsi i diritti di proprietà e utilizzo dei loro atolli per le proprie basi militari, che in futuro potrebbero rivelarsi vitali per tenere sotto controllo la marina americana nel teatro dell’Asia-Pacifico. Al contempo, sia Washington che Pechino stanno cercando di comprarsi il silenzio dei Paesi più colpiti dal cambiamento climatico di fronte al loro immobilismo nei confronti di qualsiasi regolazione ambientale di ampio respiro. A giudicare dai risultati del 53esimo Pacific Island Forum, sembra che ce la stiano facendo.
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