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Se aziende e istituzioni fanno pinkwashing per migliorare l’immagine, ma sotto sotto non ci credono

Intervista. La giornalista e scrittrice di origini bresciane Jennifer Guerra sarà ospite della rassegna «Moltefedi sotto lo stesso cielo» questa sera 10 ottobre all’Auditorium del Liceo Mascheroni alle ore 20,45, per presentare il suo libro «Il femminismo non è un brand» e discutere di come il femminismo sia diventato un fenomeno di massa, spesso piegato da interessi politici e aziendali. Come smascherarli?

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«Vuoi sapere di cosa si occupano le intellettuali femministe giovani e chic? Del loro corpo, di loro stesse. Che brutta fine per il movimento». La frase scritta da Ginia Bellafante in un articolo del 1999 dimostra come il femminismo sia un movimento ricco di sfumature e complessità che ha vissuto nel corso degli anni diverse evoluzioni e fratture, riflettendo le sfide e le conquiste di ciascuna generazione. La citazione provocatoria mette in luce una tensione interna, evidenziando come le nuove correnti del femminismo, in particolare la quarta ondata emersa negli anni 2010, siano state accusate di individualismo e superficialità.

Jennifer Guerra, nel suo ultimo libro edito da Einaudi «Il femminismo non è un brand», racconta bene come di come questa fase sia caratterizzata per l’uso massiccio dei social media nel promuovere questioni di giustizia sociale, come la violenza di genere e l’uguaglianza salariale. Ma anche per l’accento posto sulla body positivity e il diritto di scelta nella salute riproduttiva. Sebbene queste questioni siano indubbiamente importanti, le critiche non sono tardate ad arrivare: si è forse persa di vista la dimensione collettiva e politica del femminismo?

A questo si aggiunge il fenomeno del pinkwashing, in base al quale aziende e istituzioni, pur apparendo come sostenitrici dei diritti delle donne e della comunità LGBTQ+, si rivelano più interessate a migliorare la propria immagine che a impegnarsi concretamente. Questa versione mainstream del femminismo, che spesso va a braccetto con il consumismo, solleva interrogativi impellenti.

Oggi, mentre il femminismo riemerge come fenomeno di massa, è fondamentale esplorare la sua evoluzione e il suo dialogo con la contemporaneità. Solo così potremo riconoscerne il valore e l’importanza nell’emancipazione non solo delle donne, ma dell’intera società. Non a caso l’intervento di Jennifer Guerra si intitola: «Chi ha paura del femminismo?». L’abbiamo intervistata.

CP: Perché le persone hanno paura del femminismo?

JF: Direi che oggi, anche se ci troviamo in un momento di grande fortuna e popolarità per il femminismo questo termine è stato sempre più sdoganato nella cultura di massa. Tuttavia, ci sono ancora molte persone che ne hanno paura. E spesso questa paura deriva dall’ignoranza. Il femminismo viene spesso banalizzato nelle sue rivendicazioni e nei suoi valori, soprattutto dal mercato. Almeno, questa è la mia opinione. L’idea di molti non deriva da un contatto diretto con il movimento femminista o con le persone che lo praticano, ma piuttosto dalla narrazione che ne fanno i giornali, la cultura pop o le celebrità. Ciò che emerge del femminismo è più legato alla sua visibilità piuttosto che al suo aspetto politico. Ovviamente, il femminismo è sempre stato criticato e osteggiato da diverse forze politiche e dall’opinione pubblica. Inoltre, porta con sé critiche storiche, come l’idea che sia un movimento che promuove la superiorità della donna sull’uomo o che sia animato dall’odio verso gli uomini.

Queste critiche storiche sono sempre state presenti e il femminismo ha dovuto affrontarle. Tuttavia oggi si mescolano con il fatto che, sebbene negli ultimi dieci anni il movimento sia stato elevato dalla cultura di massa o dalla cultura pop, spesso si tratta di una versione parziale, se non addirittura fuorviante, di ciò che il femminismo rappresenta realmente.

CP: In che modo l’ideologia neoliberale ha influenzato il femminismo?

JF: L’idea su cui si fonda il neoliberalismo è che, nel contesto della società attuale, l’unico modo per raggiungere il progresso sia quello di concentrarsi sull’individuo. La responsabilità politica, economica e sociale dell’avanzamento della società si sposta così dalla dimensione collettiva a quella individuale. Di conseguenza, tutti gli aspetti, sia positivi che negativi, di ciò che accade nella società sono attribuiti esclusivamente alla responsabilità del singolo.

Il neoliberalismo vede la persona come un “progetto”, e in particolare come un progetto economico. Qualsiasi aspetto della vita, anche al di là del lavoro, deve in qualche modo essere capitalizzato per il successo di questo progetto individuale.

Questi valori sono entrati anche nel femminismo. Così come il capitalismo ha fatto con altre forme di controcultura o sottoculture – penso, ad esempio, a certi movimenti musicali che, una volta diventati mainstream, sono stati in qualche modo “addomesticati” – lo stesso è accaduto con il femminismo. Alcuni aspetti che non contrastano con l’ideologia neoliberale sono stati assimilati all’interno del femminismo.

Alla base del femminismo, infatti, c’è un progetto politico che mira a migliorare il mondo, a creare una società più giusta ed equa, in cui le donne siano soggetti a pieno titolo e non più in una condizione di subalternità rispetto agli uomini. Tuttavia, per far sì che questo progetto sia integrato nell’ideologia neoliberale, esso deve essere, in un certo senso, “domato” o “addomesticato”. Alcuni valori femministi sono stati capitalizzati: ad esempio, l’idea del successo femminile, l’idea che una società più femminista sia una società in cui ci sono più donne al potere, oppure la retorica dell’autoimprenditorialità femminile. Si tende a far passare l’idea che la liberazione femminile si realizzi esclusivamente attraverso il consumo, la scelta individuale e il successo personale.

Questi valori, di per sé, non sono estranei al femminismo, ma sono quelli più appetibili nel contesto neoliberale. Al contrario, altri aspetti del femminismo, come il mutualismo o la cura, che non possono essere capitalizzati, trovano meno spazio all’interno di questo femminismo neoliberale.

CP: Che ruolo hanno avuto i social media nel plasmare il femminismo?

JF: I social media hanno innescato e favorito la frammentazione del movimento femminista. Credo che queste piattaforme, non solo nel femminismo ma anche in altri ambiti dell’esistenza, ci diano un po’ l’illusione di stare facendo qualcosa semplicemente consumando contenuti. Ad esempio, vedere post che parlano di femminismo ci dà l’impressione di far parte del movimento. Questa dinamica ha spostato l’attenzione dall’attivismo politico reale a una sorta di attivismo “da schermo”.

Inoltre, i social hanno favorito dinamiche di divisione e personalismi. È diventata una prassi comune personalizzare l’attivismo: non solo si fanno azioni individuali sui propri profili, ma si osserva anche cosa fanno gli altri e si finisce per pensare che criticare quello che fanno online equivalga a fare critica sociale. Secondo me, in questo processo, si perde la dimensione collettiva e tangibile del femminismo.

Detto questo, ci tengo a sottolineare che non penso che Internet o i social media siano stati del tutto negativi per il femminismo. Non dobbiamo dimenticare che la diffusione del femminismo a livello globale, oggi, è anche merito di Internet.

CP: Pensi che l’enfasi sul concetto di “realizzazione femminile”, spesso promossa dalle piattaforme commerciali, possa rafforzare gli stereotipi di genere invece di combatterli?

JF: Sì, secondo me tutta la retorica della realizzazione femminile e del successo, come è stata proposta negli ultimi anni, ha già mostrato i suoi limiti. In un certo senso, ha contribuito a mantenere invariati i rapporti di classe, perché la realizzazione femminile ha senso solo per chi ha già i mezzi per aspirare a quel tipo di potere.

Un altro aspetto interessante è l’effetto che questa ideologia ha avuto sugli uomini. Oggi vediamo un crescente risentimento da parte degli uomini nei confronti delle donne e del femminismo. Molto spesso, questo risentimento nasce dall’idea che questi discorsi escludano gli uomini dall’orizzonte sociale e politico. Non dico che dobbiamo moderare il nostro linguaggio per non offendere gli uomini, non è questo il punto. Tuttavia, mi sembra che si proponga una visione del mondo in cui si valorizzano solo gli aspetti tipici dell’ideologia neoliberale: successo individuale, potere, raggiungimento di posizioni di prestigio. Questa retorica, in qualche modo, continua a riprodurre dinamiche di esclusione e divisione.

CP: Quale pensi che sia il futuro del femminismo?

JF: Credo che in questo momento stiamo vivendo una crisi del femminismo, almeno nella sua forma più diffusa. Come dicevo prima, stiamo assistendo a un maschilismo di ritorno, soprattutto tra gli adolescenti. Qualche tempo fa, «The Guardian» ha pubblicato un sondaggio in cui si mostrava che gli adolescenti hanno un’opinione più negativa del femminismo rispetto ai boomer. Questo è molto preoccupante, considerando che i boomer si sono scontrati con il femminismo più radicale, che in molti casi ha messo in discussione i rapporti tra uomini e donne. Invece, gli adolescenti di oggi si confrontano con un femminismo spesso semplificato e banalizzato, ma ne hanno un’opinione addirittura più negativa. Questo, secondo me, riflette una crisi del femminismo mainstream.

In questo momento delicato di transizione, gli aspetti più banalizzati del femminismo sono in crisi, così come i movimenti stessi. Come femminista, credo che dobbiamo intervenire sui movimenti, perché, anche se non possiamo controllare i media e le notizie, possiamo riflettere su cosa abbiamo sbagliato e su cosa possiamo migliorare.

CP: Quando parli di movimenti, intendi la dimensione partecipativa?

JF: Sì, esatto. Mi riferisco ai movimenti femministi, qualunque essi siano. Oggi c’è una tendenza a focalizzarsi sui comportamenti individuali, piuttosto che fare una critica collettiva. Invece di chiederci cosa abbiamo sbagliato noi come femministe, si tende a scegliere una figura, interna o esterna al movimento, e a concentrarsi su di essa.

Ad esempio, tutte le critiche rivolte a Chiara Ferragni per il modo in cui si relaziona al femminismo: si prende lei come simbolo di tutto ciò che non funziona nel movimento, perché si appropria del linguaggio femminista, ma questa critica si limita a lei come individuo. È un circolo vizioso: ci si lamenta del fatto che persone singole si approprino del femminismo e ne diventino simboli, ma poi l’unica critica che si produce è contro quella singola persona. Nel libro ne parlo ampiamente: invece di analizzare le condizioni che permettono a una celebrità di dichiararsi femminista, ci si concentra su comportamenti specifici di quella persona, cercando di capire se ha o meno i “titoli” per definirsi femminista.

Secondo me, dobbiamo uscire da questa mentalità, che è una mentalità neoliberale. Si individua un nemico o, al contrario, si delega a una singola persona il compito di salvare il femminismo o l’umanità. Questo approccio, alimentato dai social, è presente anche nei movimenti femministi stessi, creando frammentazione e incomunicabilità. In un momento come questo, sarebbe invece urgente costruire alleanze all’interno dei movimenti femministi, date le sfide politiche che stiamo affrontando.

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