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Rwanda, trent’anni dal genocidio. La dolorosa storia di Godeliève Mukasarasi

Articolo. Il genocidio del Rwanda del 1994 ha causato un milione di morti in 100 giorni, coinvolgendo anche Hutu considerati “traditori”. Godeliève Mukasarasi, testimone e vittima, ha fondato SEVOTA per promuovere pace e diritti umani. Ne parlerà stasera a Sant’Agostino per la rassegna «Molte Fedi sotto lo stesso cielo».

Lettura 6 min.

«Il 19 aprile ho visto due bambini e due uomini - tra di loro c’era Rwagasana, lo zio di mio marito - uccisi a colpi di machete e bastone dai miliziani. Il 21 aprile mia suocera e i suoi nipoti vennero da noi dopo che le loro case erano state distrutte. Poi andarono a casa di mia figlia e di suo marito: sulla strada, vennero presi e condotti con l’inganno al fiume Nyabarongo. Vidi solo le braccia di mia suocera, completamente tagliate. Poche ore dopo, mio figlio Pierre venne portato via per essere giustiziato. Fu Augustin, il sarto del paese, a supplicare che fosse lasciato in vita... e così fu. Finché non arrivò il nostro turno, il 23 aprile 1994, secondo l’ordine prestabilito».

È con queste durissime parole che Godeliève Mukasarasi ricorda i primi momenti del genocidio dei Tutsti portato avanti dagli etnici Hutu in Rwanda: un milione di morti in soli cento giorni, in un Paese poco più grande del Piemonte. Non tutti coloro che vennero uccisi erano Tutsi. Alcuni erano Hutu che avevano “tradito” la loro etnia, sposandosi con i Tutsi o manifestando delle simpatie politiche invise al regime che governava il Rwanda. Mukasarasi era una di questi Hutu perseguitati: dopo aver visto le atrocità del genocidio e aver perso la sua famiglia, ha deciso di fondare SEVOTA, un’organizzazione di pace che ancora oggi promuove la riconciliazione tra le due etnie del Rwanda. Stasera sarà a Molte Fedi Sotto lo Stesso Cielo, con la conferenza «Rwanda. Trent’anni dal genocidio».

Un genocidio pianificato a tavolino

«Il genocidio è iniziato il 6 aprile 1994, ma le prime voci da noi sono arrivate solo tre giorni dopo. Alcuni vicini, alcuni amici persino, sono venuti a comunicarmi che si stavano preparando a uccidere tutti i Tutsi, compresi i bambini, poiché il consideravano traditori, serpenti, malvagi. Dicevano di avere una lista già pronta», ci dice Mukasarasi.

Il genocidio de Rwanda ha radici profonde, che affondano nel periodo coloniale: nella prima metà del XX secolo, il Paese è stato una colonia belga, dominata da bianchi europei ed etnici Tutsi. Gli Hutu presero il potere solo quando la presenza belga fu completamente sradicata, e diedero inizio a durissime persecuzioni contro i Tutsi, che li spinsero a migrare nelle nazioni vicine e a organizzarsi in un movimento paramilitare ribelle. Le violenze cessarono nel 1993, dopo una decade di sforzi per la riconciliazione: gli accordi di Arusha, firmati dal Presidente Rwandese Juvénal Habyarimana, prevedevano il ritorno in Rwanda dei Tutsi fuggiti all’estero e un’equa divisione del potere tra le due etnie. Dietro a questa mossa c’erano ragioni economiche e politiche: il Paese versava in una crisi economica profonda, mentre l’Occidente premeva per una transizione ordinata verso una società multietnica. Mentre Habyarimana firmava il rientro della diaspora Tutsi in Rwanda, attorno a lui si organizzava un piccolo gruppo di potere che pianificò a tavolino lo sterminio dei Tutsi appena tornati nel Paese: le milizie Hutu erano un vero e proprio esercito con 30.000 uomini ben armati all’attivo, pronti a scattare dopo aver ricevuto il comando dal Governo di Kigali.

Il comando arrivò il 6 aprile 1994, come dicevamo. Mukasarasi ricorda che «una folla di giovani venne a distruggere casa nostra con una brutalità senza precedenti. Il nostro amico di famiglia Innocent, che non aveva partecipato al genocidio e per questo fu ucciso da alcuni Hutu, ci disse di pagare loro del denaro perché se ne andassero. Lo facemmo. Frodulard, il fratello di mio marito, trascorse una settimana nella boscaglia vicino al fiume: divenne pallido e scheletrico per la fame. Non riuscii neanche a dargli da bere prima che ci prendessero». Dopo aver perso la casa, il 23 aprile 1994, Mukasarasi e la sua famiglia vennero catturati dalle milizie Hutu, accusati di nascondere armi dei Fronte Patriotico Rwandese (FPR) e portati via da degli uomini armati: «avevo sentito che ogni famiglia Tutsi sarebbe stata annegata nel Nyabarongo e che i loro corpi sarebbero stati gettati in acqua dall’Urutare rw’Abarenga, una scogliera lì vicino. Dopo averci uccisi, degli Hutu avrebbero preso ciò che era rimasto di casa nostra, si sarebbero divisi il bestiame e i campi e avrebbero cercato chiunque si fosse nascosto nei boschi. Questo è ciò che successe alla famiglia di mio marito».

Mukasarasi, suo marito Emmanuel e i suoi figli ebbero un destino diverso: furono condotti al municipio di Taba, dove vennero miracolosamente risparmiati. «Al posto di blocco nei pressi del comune, i miliziani presero i bastoni per uccidere i miei figli. Caddi a terra e mi coprii gli occhi per non vedere. Delle donne cristiane, tra cui la nostra vicina Mukanoheri, iniziarono a cantare inni di lode e a chiedere perdono. I miliziani decisero di lasciar stare i miei figli e ci fecero andare al municipio. Lì vidi uomini, donne e bambini uccisi. Donne e ragazze venivano abusate e violentate dai miliziani: è questa la barbarie del genocidio».

Una speranza per le vittime del genocidio

Mukasarasi e la sua famiglia sopravvissero al genocidio: i cento giorni di furia degli Hutu finirono prima che potessero essere uccisi. Ma gli eventi lasciarono su di loro un marchio indelebile. La figlia dell’attivista venne catturata e stuprata dai miliziani. Quello contro la giovane era un vero e proprio crimine di guerra, e così la figlia e il marito di Mukasarasi decisero di testimoniare di fronte al Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda (ICTR). «La loro udienza era programmata per il gennaio del 1997. Io sapevo che non sarei andata con loro, perché quello stesso giorno avevo un corso di formazione in un’altra città, ad Arusha. Ma Emmanuel e mia figlia non poterono mai recarsi in tribunale, perché vennero uccisi da degli infiltrati il 23 dicembre 1996, poco prima che partissero da casa nostra».

Gli infiltrati a cui l’intervistata fa riferimento sono gli etnici Hutu che decisero di non deporre le armi al termine della guerra: il genocidio era finito perché il FPR di Paul Kagame (ancora oggi Presidente del Rwanda) era entrato a Kigali e aveva rovesciato il governo Hutu. Ma nelle province periferiche restavano attivi gli Interhamwe e gli Impuzamugambi , due gruppi paramilitari Hutu che non vennero ricondotti all’ordine né dall’esercito nazionale né dall’intervento della missione ONU UNAMIR, che rimase nel Paese fino al 1996. Questi gruppi operavano insieme ai tantissimi militari e miliziani Hutu fuggiti all’estero per evitare che le vittime di stupro o di violenza testimoniassero contro di loro, garantendosi così l’impunità. Dopo aver ucciso suo marito e sua figlia, ci provarono anche con Mukasarasi stessa: nonostante le minacce di morte ricevute, l’attivista si presentò davanti all’ICTR e denunciò l’ex-sindaco di Taba, Jean-Paul Akayesu, connivente con gli Hutu e che non aveva fatto nulla per proteggere i suoi concittadini. Akayesu venne condannato nel 1998.

Nel dicembre del 1994, intanto, Mukasarasi e la sua famiglia avevano fondato l’organizzazione Solidarité pour L’Epanouissement des Veuves et des Orphelins visant le Travail et l’Autopromotion, anche nota come SEVOTA. «Ebbi l’idea di fondare SEVOTA durante il genocidio», spiega l’attivista, che aggiunge: «la nostra prima assemblea si tenne il 28 dicembre 1994 e il progetto fu lanciato l’8 marzo 1995. La nostra missione è quella di creare una società in cui la dignità umana ha un valore, in cui uomini, donne e bambini si aiutano a vicenda per prosperare. Per questo promuoviamo la pace, l’unità e i diritti umani, focalizzandoci in particolare sui diritti femminili e dei bambini colpiti dai traumi del genocidio del Rwanda. Nel concreto, ci focalizziamo sulla promozione dei diritti della persona, specie tra i più vulnerabili, e sugli sforzi di riconciliazione tra Hutu e Tutsi». Tra i progetti concreti di SEVOTA vi è l’utilizzo di fondi e donazioni per ridurre la povertà femminile e infantile, ma anche la mobilitazione di vedove e orfani del genocidio che, con le loro testimonianze, promuovono la pace, la non-violenza e la risoluzione dei conflitti. Infine, SEVOTA si occupa di educazione nelle scuole, del rilancio di una cultura basata sulla solidarietà e della crescita degli orfani e dei bambini nati dagli stupri del 1994 e degli anni successivi.

Le violenze sessuali furono estremamente diffuse durante il genocidio del Rwanda, tanto che ancora oggi i beneficiari principali dei progetti di SEVOTA sono le donne che hanno subito degli stupri da parte di militari e paramilitari Hutu e i bambini che questi rapporti hanno generato. «Le ricerche in nostro possesso suggeriscono che quasi tutte le sopravvissute al genocidio che all’epoca avevano almeno dodici anni hanno subito violenze sessuali. Secondo l’inviato delle Nazioni Unite René Degni-Ségui, “lo stupro era la regola, la sua assenza era l’eccezione”. Nel 1996, l’ONU stimava che nel corso dei 100 giorni del genocidio siano state violentate tra le 250.000 e le 500.000 donne e ragazze. Il ministero ruandese della famiglia e della protezione delle donne, invece, dichiara solo 15.700 casi accertati: con ogni probabilità, è una stima al ribasso. I dati del personale medico parlano di una nascita ogni cento casi di violenza, ma queste statistiche non includono le donne assassinate dopo essere state violentate. Lo stupro era sistematico e veniva utilizzato come arma dai soldati che perpetravano i massacri. Da questi rapporti involontari, la comunità internazionale stima che siano nati 10.000 bambini. L’Ufficio Nazionale Ruandese della Popolazione, invece, stima tra i 2.000 e i 5.000 nati. Anche qui si tratta di numeri in difetto. A prescindere dall’entità delle cifre, i figli di questi stupri sono chiamati “bambini del cattivo ricordo” o “bambini indesiderati”, e spesso vengono stigmatizzati dalle loro famiglie e dalla società che li circonda», conclude Mukasarasi.

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