Vorrei poter dire di stare affrontando il Coronavirus nel migliore dei modi. Di essere cauta ma positiva, con un occhio a chi sta peggio di noi, ma senza angosciarmene. Di avere disinfettato la casa con i detergenti raccomandati e di avere insegnato a mio figlio come lavarsi le mani cinque volte al giorno. Ma la verità è che il mio bimbo magari le mani se le lava, ma poi si mette le pigne in bocca. Oppure il portachiavi, o le dita sporche di terra del parco. La verità è che non ho trovato l’alcol rosa e sto usando il Vetril (mai avuto vetri così puliti, ma dubito abbia un’efficacia antivirale). La verità è che, come tutti, sono preoccupata, ma questo non sempre si traduce in un’azione razionale. Non mi viene neanche spontaneo starnutire nella piega del gomito
Ho già litigato con tutti
Mio marito, il classico uomo già in coma con 36.9 di febbre, lavora in un’altra città e sta a casa dall’ufficio perché una volta lo hanno sentito tossire. Anche mio figlio è a casa dal nido. Vorrei poter dire che sto godendo la vita familiare, ma ho già litigato con tutti. Troppa vicinanza crea insofferenza. Continuo a lavorare, per fortuna, ma ho dovuto rinunciare o posticipare tre progetti cui tenevo molto, forse quattro. Sono attaccata al computer, a casa, e mi mancano tutti quegli impegni, a volte maledetti, che scandiscono le giornate e le settimane lavorative: la trasferta, la riunione, la presentazione, la conferenza, l’appuntamento. Per fortuna mia madre insegna e gli insegnanti sono una delle poche categorie a casa dal lavoro, senza avere paura di perderlo. Così può tenermi il bambino, almeno mezza giornata. Mi va meglio che ad altri, costretti a pagare una babysitter.
Come fa il koala?
Solo chi non ha figli può pensare che lo smart working – inteso come lavoro da casa – sia l’ideale per un genitore. Sì, con un po’ di allenamento è possibile rispondere a una mail mentre si asciuga un naso gocciolante o farsi venire un’idea brillante mentre si gioca con le macchinine, ma qualsiasi attività che richieda una concentrazione superiore ai dieci minuti è compromessa. Ecco cosa succede se una telefonata di lavoro si protrae per più di 30 secondi: “Mamma come fa il koala? E lo struzzo? Mamma giochi? Mamma ho sete! Mamma rispondiiii??”. Una volta, per finire un’intervista importante, mi sono dovuta chiudere nello sgabuzzino delle scope, mentre mio figlio ululava fuori dalla porta. Mi spiace, ma è vero quello che tutti i genitori dicono: andiamo a lavorare per riposarci. Il telelavoro lo lasciamo agli altri.
Sei confezioni di latte
È facile fare dell’ironia, ma io comprendo le ragioni di chi ha preso d’assalto i supermercati. Domenica scorsa, quando si è capito che la situazione stava precipitando, non ho proprio pensato alla spesa, ma lunedì mi sono accorta di non avere niente in frigorifero. Ho teleguidato da Milano mio marito al supermercato (avrò fatto bene a spostarmi per lavoro? È uno dei mille piccoli interrogativi di questi giorni). Alla dichiarata impossibilità di trovare delle carote o delle patate o alcunché dal reparto ortofrutta mi è salita un po’ d’ansia. Un’ansia che si è tradotta in: “Prendi una confezione da sei di latte a lunga scadenza”. Non ho mai bevuto latte UHT in vita mia. Ma fra tutti gli scenari possibili non volevo rimanere senza latte per la colazione del bambino. Bambino che, un giorno su due, al mattino prende tè nero o succo di frutta industriale, perché il latte fresco lo faccio regolarmente scadere, oppure dimentico di comprarlo. Eppure in quel momento mi sembrava importante avere delle scorte. Rimangono nella mia dispensa, a monito della mia irrazionalità, sei litri di latte. Almeno finché Lara Abrati, la critica culinaria di Eppen, mi dirà cosa farne.
Esco, anzi no
Giovedì pranzo fuori con le amiche, è un appuntamento fisso. Ma cosa fare in questa situazione? Abbiamo visto tutti il video motivazionale #milanononsiferma, cui noi bergamaschi ci siamo prontamente accodati. Mi ha colpito il sindaco Giorgio Gori, che su Facebook ha postato la sua foto in Città Alta, a cena da Mimmo con la moglie. Ma quindi, come bisogna comportarsi? Cercare di stare a casa ed evitare il più possibile i luoghi pubblici per limitare la diffusione del virus oppure “combattere la paura” e uscire, per rallegrarsi e dare fiato agli esercenti? Vorremmo tutti fare la cosa giusta, solo che non sappiamo quale è. Per la cronaca, io non ho nessuna “paura” di andare a mangiare la pizza, ma giovedì ho invitato le amiche a casa mia. È stato uno strazio, perché il bambino era lamentoso, il risotto non mi è riuscito, le amiche avevano fretta.
Wuhan o Uan
L’unica soddisfazione e valvola di sfogo è sentirsi autorizzati a fare battutacce. La prassi diffusa, fra colleghi e amici è salutarsi con un “Ci vediamo, o forse no”, che è una battuta scema, ma ci fa sempre ridere. La situazione è seria, ma non drammatica , e siamo tutti coinvolti. Questo basta per mettere da parte ogni regola del politicamente corretto: nessuno può accusarci di essere insensibili, razzisti, rozzi e stupidi se scherziamo su noi stessi. Funziona così: su WhatsApp ci scambiamo ordinanze, articoli, liste di infetti. Ogni tanto si litiga. Poi parte il momento demenziale: “Coronavirus, Italia terza per numero di contagio” risposta: “Forza Azzurri! Cina: salutate la capolistaaa”. Ci si rallegra perché finalmente Trenitalia sta sanificando i treni. Wuhan diventa Uan, il pupazzo rosa di chi è cresciuto con i programmi Fininvest. Girano ogni sorta di meme con l’Amuchina protagonista. Ci divertiamo così.
L’attesa
In una situazione di stallo, dove la preoccupazione si fonde alla noia, la paura ribolle sotterranea e riemerge solo a tratti, nelle forme di un incubo. La notte fra domenica e lunedì mi sono svegliata alle 4, da un sogno a base di zombie. La mia amica più fredda ed equilibrata di tutte mi scrive: “Sono molto angosciata, sto perdendo la mia razionalità”. Un’altra mi ha detto, seriamente, di avere paura di lasciare i figli orfani. Dopo ne abbiamo riso insieme. È questione di un attimo, poi tutto rientra: si va a lavorare, si guarda l’Amica geniale in tv, si prepara la cena commentando le ultime eliminazioni di Masterchef. Rimane, in sottofondo, una vocina che dice: Fino a quando?
La città
Vivo in una città che sta reagendo a questa strana situazione di emergenza nell’unico modo possibile: con sobrietà. Girando a piedi per Bergamo, in una settimana, ho visto solo due persone con la mascherina. La città è meno affollata, ma non deserta. Si riesce a salutare i vicini e a fare compere dal fornaio e dal fruttivendolo senza parlare di virus. Ho sbrigato faccende burocratiche in Comune in tempi da record. Ho persino comprato un rossetto, azzeccando la tonalità senza neanche usare il tester, naturalmente vietato per motivi di igiene. Gli studenti della mia amica professoressa le hanno chiesto come mettersi in pari con le ricerche scolastiche, rendendola molto orgogliosa. La chat dei genitori del nido è silente: nessuno si è sentito in dovere di commentare la situazione Coronavirus (grazie!). Conoscenti, parenti e amici che lavorano in ospedale continuano a lavorare in ospedale, più stanchi del solito ma determinati (grazie anche a voi). Abbiamo tutti voglia di andare avanti e fare il nostro dovere, ci basterebbe sapere esattamente qual è.