Mentre scrivo questo pezzo mi trovo su un treno. Il primo Freccia Rossa che prendo per tornare a casa. Di solito preferisco spostarmi in aereo, perché è più comodo, dicono.
Per un disabile grave un viaggio di nove ore è stancante: devi fare i cambi, le valige, potrebbero derubarti, potresti cadere (cosa avvenuta diverse volte mentre cercavo di salire sui regionali per andare a Milano). E chi sono io per smentire tutti questi rischi? Una disabile grave, appunto.
(tenete a mente questa definizione che ci tornerà utile successivamente nella narrazione)
La verità che ho scoperto in questi tre anni è che i sedili dei treni sono molto più comodi di quelli degli aerei, che mi costringono ad alzarmi ogni ora, mentre in queste nove ore sui binari posso dilettarmi in una delle attività che prediligo in assoluto oltre a mangiare e dormire, cioè stare seduta.
E sì, ciò dipende dalla mia ormai nota disabilità motoria, perché se sto in piedi per più di un minuto senza muovermi, i muscoli iniziano a bruciarmi come se stessero andando a fuoco.
Questo ha sempre avuto un impatto notevole sulle mie scelte: i concerti li vedi per forza da seduta e da lontano (perché i disabili devono essere messi in sicurezza). Nelle uscite tra amici devi sempre sperare che ci sia un posto in cui sedersi e quando sei fortunata le sedie sono sgabelli altissimi sui quali fai fatica a salire. Soprattutto perché immagini e senti che gli occhi di tutti nel locale siano concentrati sull’osservazione delle tue gesta atletiche e finisce che ti devono sollevare di peso. Scoraggiando i possibili spasimanti che potrebbero trovarsi nelle vicinanze. In fondo, onestamente, chi mai potrebbe innamorarsi di un peso?
L’ho imparato a mie spese, fin dal primo anno a Bergamo, quando la scelta dei bar e dei ristoranti in cui andavo dipendeva dalla conformazione dei posti a sedere, nonché dalla loro effettiva esistenza.
Lo so, lo so. Vi avevo promesso che avrei smesso di parlare di me. Vi ho illusi, vi ho salutati, vi ho immaginati tutti commossi con in mano un fazzoletto bianco mentre mi guardavate salire su un treno carico di possibilità, persone da conoscere, vite da raccontare, esperienze da vivere tra le strade di Città Alta. Mentre mi chiedevo, ogni volta che cercavo di salire a piedi, se per l’ennesima volta era Dio che aveva scelto di prendersi gioco di me. O sono solo io che ho preso troppo alla lettera la definizione di “strada più tortuosa”, quando ho scelto un posto in cui ci sono ciottoli ad ogni via.
Ebbene, quando ho detto alla vita che non potevo più permettere alla disabilità di definirmi non avevo messo in conto che da più di ventisei anni c’è un qualcosa che perseguita più della mia malattia, del dolore, delle difficoltà reali che ne derivano: la sfiga.
E quindi se scegli di trasferirti in una città che, sanpietrini a parte, sembrava alla mia portata, tra servizi che funzionano, università all’avanguardia e facilità negli spostamenti, arriva un virus mortale che ti priva di tutte queste possibilità. Con epicentro dei contagi proprio quel luogo che con fatica, pazienza, aspettative e paure, hai scelto di chiamare “casa”.
“Se una notte d’inverno un viaggiatore…”
Se in una giornata di primavera un viaggiatore (o una viaggiatrice in questo caso) disabile, decidesse di raccontarvi la sua vita nell’ultimo anno durante una pandemia mondiale, sarebbe interrotto dal suo vicino di posto che cerca di fare conversazione.
Solitamente mi piace studiare i passeggeri, provare a cogliere il loro vissuto e immaginare cosa si nasconde dentro alle loro valige oltre ai vestiti. In questo tempo incerto in cui in un modo o nell’altro siamo accomunati da questo tragitto che ci sta portando alle nostre origini, ai nostri affetti. Chi con lo zaino da studente fuori-sede, chi con la divisa da militare, tutti uniti da una cadenza inequivocabile che racconta storie di immigrazione e di rivalsa.
Il povero malcapitato seduto di fronte a me è un uomo sulla cinquantina. Mentre arrivo accompagnata dal personale dell’assistenza, parla al telefono con sua madre alternando l’inglese al dialetto calabrese. Prima del fatale errore mi era sembrato un siparietto molto tenero.
Mi sono seduta, mi ha osservata per alcuni secondi e poi non ha resistito e me lo ha chiesto: Hai avuto unincidente? Inizialmente mi sono augurata – e ho fatto finta – di non capire quello che mi stava chiedendo. Ho pensato che potesse riferirsi al ritardo del treno, gli ho chiesto di spiegarsi meglio, dandogli la possibilità di redimersi. E invece niente, ci è cascato anche lui, anche se alternava l’inglese al calabrese con un’agilità da fare invidia.
Senza pensarci troppo, anzi, senza pensarci proprio, come se quella fosse davvero la verità (in parte lo è), gli ho risposto: sì, ho avuto un incidente, sono nata. È cominciato così il preludio di un viaggio che aveva tutte le caratteristiche per annunciarsi silenzioso.
Ne ho concluso, ancora una volta, che la mia vita è un pendolo che oscilla tra l’operatore del servizio di assistenza che mi sorpassa perché evidentemente non cammino abbastanza male da poter essere io la persona che sta cercando. E il nuovo inquilino della residenza universitaria in cui abito che mi chiede se può lavorare per me come assistente personale.
“La patente”
Se mi guardo indietro, esattamente ad un anno fa, ricordo una delle numerose chiamate ai numeri regionali, per spiegare il mio diritto di tornare a casa. L’operatore del centralino mi disse che sì, ero una persona con una grave disabilità ma che non ero in fin di vita e che quindi dovevo restare dov’ero. Parafrasando Ennio Flaiano, la situazione era grave ma non seria.
Durante la prima settimana, in anticipo sull’annuncio governativo della chiusura definitiva delle regioni, sono rimasta in residenza insieme a poche altre persone. Mi sentivo come un animale in trappola, in una stanza che per tanti mesi era stata il mio rifugio, il simbolo della mia indipendenza.
In pochi istanti quella stanza si era trasformata in un ambiente cupo che mi metteva di fronte all’evidenza delle mie difficoltà. Non sono solo una persona con una disabilità ma ho sempre bisogno di una mano per fare la spesa. Non ho abbastanza forza per reggere oggetti pesanti, non ho una macchina e anche se ho ventisei anni, per via della mia patologia, sono un soggetto a rischio.
Nella sfortuna, sono stata fortunata, perché durante il primo lockdown, altre braccia si sono fatte più forti delle mie, per sorreggere le mie gambe che rimanevano bloccate per il poco movimento e per darmi una parvenza di normalità tra pizze e cornetti fatti in casa. Nelle notti che passavo sveglia a guardare serie tv, a pensare a come rassicurare mia madre mentre cercavo di rassicurare me stessa, ogni volta in cui mi veniva un colpo di tosse dovevo convincermi che fosse solo tosse e non il famigerato covid.
Le conseguenze fisiche dell’isolamento me le porto addosso ancora adesso: dolori articolari, rigidità muscolare, riduzione della mobilità degli arti superiori. Le conseguenze psicologiche si sono materializzate in un’unica sottile, tagliente, constatazione: la realtà sa essere molto più crudele di tutte le storie che ti racconti quando pensi di non avere nulla in meno degli altri. Insomma, durante la prima ondata, ho capito che c’era un unico attestato che avrebbe potuto ridurre il potenziale handicappante della mia malattia: la patente.
Impressioni di settembre e titoli di coda
Non vi racconterò del volo di ritorno a maggio con uno scalo di cinque ore, dell’isolamento fiduciario di 14 giorni in una casa di montagna. Ma voglio confessarvi che nei successivi quattro mesi ho capito che a pesare, in quel posto in cui sono nata e cresciuta, era la mia mancanza di umiltà.
Ho avuto tempo per riconoscere che la mia malattia non mi ergeva al sopra di chiunque non conoscesse il mio modo di essere. E che se le persone non guardavano oltre all’etichetta di “disabile grave”, era anche un po’ colpa mia che non ho mai avuto l’onestà di mettere in discussione anche i miei di pregiudizi. Rispetto ad un mondo nel quale non mi riconoscevo, se non per differenza – e che non ho mai cercato di comprendere fino in fondo.
A settembre sono ripartita nella speranza che quell’aereo su cui sono salita mi avrebbe portata in una città che piano piano stava tornando a respirare. Sono bastate però poche settimane a farci tornare tutti coi piedi per terra. La realtà ci ha schiantati nuovamente al suolo e perfino per me che sono abituata a cadere, l’impatto è stato più doloroso del precedente.
Quindi eccomi qui, un anno dopo, alla fermata di un treno che mi riporta a casa. Le persone indossano ancora le mascherine ma si muovono veloci come al solito. Perché quando si tratta di scendere dai mezzi, nessuna regola sul distanziamento sociale vale davvero .
Ed io rimango ferma a guardarli, mentre mi chiedo se è il caso che resti lì o che faccia qualche passo, per facilitare il riconoscimento da parte del personale che deve accompagnarmi fuori dalla stazione. È vero, la vita è tremendamente difficile, se sei un disabile grave.