Il 21 dicembre, in piazza Vecchia, a mezzogiorno, il Campanone suona dodici rintocchi, puntuale. Se è una giornata di sole, è possibile vedere alcune persone vicine a un capo della meridiana sotto il Palazzo della Ragione, quello del Solstizio d’inverno. Fra qualche minuto il sole proietterà un’ombra a forma di anello il cui “buco” luminoso corrisponderà perfettamente all’ellisse di marmo sul pavimento. Ma cosa è successo fra il mezzogiorno del Campanone e degli orologi e quello della meridiana e del Sole? Che fine hanno fatto quei minuti?
Non abbiamo sempre avuto l’esigenza di essere sincronizzati, è una necessità nata con l’avvento dei treni. Prima del bisogno di regolare scambi ferroviari, coincidenze e orari di partenza, ogni luogo aveva un suo orario, stabilito in base al sole e ogni campanile suonava in sincrono con la sua meridiana. La tecnica ha creato un nuovo bisogno e ha distinto il tempo della natura, sancito dal moto apparente del Sole, da quello determinato dagli orologi, il tempo della tecnica.
Esiste un’altra più evidente scollatura nell’esperienza psicologica del tempo. Quella fra il tempo misurato e il tempo vissuto. Capita a tutti che il tempo scorra più o meno velocemente di quello che sembra dall’orologio. Ci sono giornate che durano attimi e minuti che durano ore.
Nella pratica psicoterapeutica ci si riferisce a queste due diverse esperienze del tempo con i nomi degli dei greci Chronos e Kairos. Chronos è il tempo misurabile, quello scandito implacabilmente dal ticchettio dei secondi (e a volte, guarda caso, viene identificato con Crono, il dio che divora i propri figli). Kairos è invece il tempo vissuto, il «momento giusto», riferito all’esperienza interiore dello scorrere del tempo.
È evidente che il Kairos è un’esperienza profondamente soggettiva: la stessa lezione a scuola, per fare un esempio, può “volare” per qualcuno e essere interminabile per qualcun altro, mentre l’ora è durata gli stessi 60 minuti per tutti: anche per il professore dietro la cattedra e per l’operaio che sta asfaltando la strada fuori dalla finestra.
L’esperienza di essere nel Kairos è legata alla sensazione di flusso, una sorta di piacevolezza del passare del tempo, in cui siamo in tempo, siamo nel tempo; mentre spesso l’essere nel Chronos è legato un senso di esser fuori tempo, di fretta, in ritardo (o in anticipo). E questo non può che generare sofferenza, che si può tradurre in depressione o ansia.
Molto spesso la sofferenza psichica scaturisce da questa crepa fra il tempo della natura e quello della tecnica, fra il tempo di cui abbiamo bisogno, per vivere, per sentire, e quello che ci viene “concesso” per essere ritenuti «sani» o «efficienti».
Parlando di depressione e della sconnessione che si sente fra il tempo interiore e quello dell’orologio, Giuseppe Lombardi, psichiatra e analista che ho avuto la fortuna di avere fra i miei docenti, ci diceva che è impossibile osservare un bocciolo di rosa per vederlo fiorire, sebbene sia una cosa che avviene in tempi umani. La rosa ha i suoi tempi per sbocciare, i tempi della natura, la nostra impazienza invece segue i tempi della tecnica. Qui mi viene in mente, parzialmente a sproposito, un distico della poetessa argentina Alejandra Pizarnik, che scrive: «la ribellione consiste nel guardare una rosa / fino a polverizzarsi gli occhi».
Troppo spesso la sofferenza psichica viene considerata, anche da chi la prova, come un vizio, una debolezza, rendendo difficile e faticoso rispondere alla domanda di senso che spesso è alla base di tali sofferenze, e che richiede un tempo per trovare, o lasciar emergere, una risposta.
Secondo alcune teorie della fisica contemporanea, la percezione del tempo che scorre sarebbe una sorta di “difetto” umano, mentre in “realtà” (qualunque cosa significhi questa parola), il tempo sarebbe una dimensione come le tre spaziali, che percepiamo ferme. Ovviamente la spiego da psicologo, ma per chi volesse assaggiare questa visione suggerisco la lettura del romanzo «Mattatoio n. 5» di Kurt Vonnegut, il cui protagonista Billy Pilgrim, reduce dalla seconda guerra mondiale, oltre a vari viaggi involontari nel tempo della sua vita, viene rapito da alieni che percepiscono il tempo come una dimensione ferma, e lo spiegano a Billy e ai lettori meglio di me.
Quello che può capitare di percepire a tutti noi, invece è di tornare indietro nel tempo. Non nel senso di ringiovanire o fare un vero e proprio viaggio nel passato, ma di ritrovarsi ciclicamente nella stessa situazione (spesso spiacevole). Questo perché il tempo psichico, il percorso di individuazione non è lineare, ma ciclico, e capita spesso di ritornare nello stesso “luogo psichico”.
Ma non è un cane che si morde la coda: specialmente se stiamo facendo un percorso di crescita, questa ciclicità è più simile, nella mia esperienza, a un serpente che si arrotola su una colonna. Ad ogni ciclo ciò che lo circonda sarà molto simile, ma in realtà si troverà un po’ più in alto. Spesso la vita ci ripropone esperienze simili finché non abbiamo fatto un passo necessario a superarle. Per Carl Gustav Jung i momenti di regressione sono fondamentali e necessari a recuperare risorse ed esperienze del nostro passato.
In «Cosmopolis», Don DeLillo fa dire al protagonista Eric Packer, un miliardario che passa gran parte del suo tempo su una Rolls Royce bianca: «Il tempo si fa sempre più scarso di giorno in giorno». Abbiamo sempre meno tempo, spesso ci diciamo di non avere neanche il tempo di respirare. Se non respiriamo moriamo, questo lo sappiamo tutti, ma se respiriamo meno siamo meno vivi, siamo più morti.
Il tempo che ci prendiamo per noi, invece che preso lo sentiamo (o ci viene fatto sentire, dalla morale o da un’etica pervertita del lavoro) come perso . A volte la bellissima espressione bergamasca di avere «bo tép», buon tempo, è usata in senso negativo. Ci siamo inventati il vizio del fumo per sentirci in diritto di prenderci 5 minuti di pausa per respirare! Eppure spesso l’istinto corporeo che induce qualcuno a prendersi la pausa sigaretta è l’istinto vitale di prendersi una boccata d’aria, un attimo di respiro. Sono convinto (e spesso nel mio lavoro lo consiglio appassionatamente), che anche fare soltanto un respiro profondo fra un compito e il successivo possa cambiare la percezione della giornata, diventando un piccolo dono di tempo che facciamo a noi stessi.
Quando abbiamo l’impressione di aver perso tempo, possiamo chiederci chi se l’è preso: noi, oppure qualcuno o qualcosa di esterno? In questo secondo caso, possiamo fare per (ri)prendercelo e dedicarlo a noi? Sembra paradossale, ma il sistema culturale in cui viviamo che ci induce a credere che il tempo dedicato al nostro benessere sia tempo perso, sprecato, si fonda sull’illusione di avere un tempo infinito per crescere, espandersi. E di avere risorse infinite da consumare, mentre l’evidenza dei fatti urla il contrario. Mentre nella cura del pianeta e nel riparare, per quanto possibile, i danni causati da noi umani, siamo già in ritardo e non abbiamo molto tempo.
Se immaginiamo il tempo come una linea orizzontale, come l’asse delle ascisse in un grafico, la nostra vita occupa un segmento più o meno lungo, sulla cui durata abbiamo un’influenza limitata. Ma possiamo agire sull’asse delle ordinate, su quello che definisco il tempo “verticale”, dando cioè “spessore” al nostro tempo, rendendolo più “denso”.
Si tratta di un’esperienza che a me, per esempio, capita nei viaggi a piedi, in cui le giornate passano velocemente, nel senso che non mi annoio, ma al contempo, se dovessi raccontarle, ci vorrebbe molto più tempo. Rallentando, insomma, si ha l’impressione di vivere di più. Non più a lungo (la dimensione che ho chiamato orizzontale), ma maggiormente (la dimensione verticale), un po’ come scriveva Oliver Burkeman a proposito della meditazione in un articolo tradotto su Internazionale. Se la destinazione finale della nostra vita è definita, insomma, a che serve correre? Che fretta abbiamo? Proviamo a rallentare e a goderci il panorama.