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#psicogeografie: siamo intrinsecamente fatti di vuoto, eppure il vuoto ci spaventa

Articolo. Fra il bisogno di esser sempre connessi e la quantità di impegni e attività con cui riempiamo le nostre vite, il rischio di passare da un horror vacui a un horror pleni in cui soffochiamo è salito. Possiamo provare a fare spazio nelle nostre vite se impariamo ad accettare e a non temere il vuoto

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Per questa deriva psicogeografica, partiamo dallo spazio. Non dallo spazio interstellare: già James G. Ballard aveva osservato che è molto più interessante lo spazio interiore! Parliamo dello spazio fra noi e le cose. Fra noi e le altre persone. Dello spazio che percepiamo vuoto. Cosa c’è fra me e chi mi ho di fronte? Cosa c’è fra Me e Te? Quando mi occupo di coppie, sostanzialmente mi occupo dello spazio fra i due. Di che cosa è pieno e di che cosa è vuoto. Di cosa passa fra una persona e l’altra, di quanto è denso.

Fra me e te che leggi, chissà da dove, ci sono due schermi, e in mezzo quello che in gergo comune si definisce «etere». E l’etere era il quinto elemento la cui esistenza era stata ipotizzata da filosofi e scienziati per cui il vuoto era inconcepibile. Ne scrive Paul M. Sutter in un articolo pubblicato qualche settimana fa su Internazionale (qui, ma serve l’abbonamento per leggerlo): «La potenza del nulla». L’universo è in espansione, le galassie si allontanano sempre di più, e in mezzo c’è il vuoto. Qui sulla Terra, similmente, ci accorgiamo di quanto sia emotivamente diverso uno spazio vuoto, libero, dal vuoto lasciato da qualcuno che si allontana: essere soli è emotivamente diverso da essere lasciati soli, dall’essere senza qualcuno.

Forse anche per questo fatichiamo a concepire il vuoto, a starci vicino. Ma se il vuoto cosmico dell’universo è pieno di energia, definita energia oscura perché ancora la comprendiamo poco, anche il vuoto lasciato da qualcuno è carico di energia, energia potenziale che aspetta di trasformarsi in energia dinamica e generare movimento, nuove possibilità.

A livello microscopico le cose non vanno meglio: come scrive Sutter, gli atomi che ci compongono sono sostanzialmente spazi vuoti in cui fluttuano particelle subatomiche. Siamo intrinsecamente fatti di vuoto, eppure il vuoto ci spaventa. Siamo terrorizzati dal vuoto. Il vuoto può risucchiare: è quello che succede con le ventose o gli sturalavandini. Possiamo creare il vuoto con strumenti relativamente semplici come pompe e ventose. E può capitare di sentirsi risucchiati da un vuoto abissale, nostro o di qualcun altro.

Nella realtà di tutti i giorni, lo spazio non è vuoto, ma pieno di qualcosa che non vediamo, aria e gas vari per esempio. Perché, quindi ci sentiamo vuoti? Forse perché non sentiamo, siamo distanti dal nostro corpo e concentrati nella testa, siamo continuamente nel pensiero, con cui ci identifichiamo, restiamo nella mente (a livello psico-corporeo, parte dei dolori alla zona cervicale, tanto comuni, può esser data da proprio questa scissione fra il corpo e la testa).

Sento che questo horror vacui può essere legato a ciò di cui scriveva Carmen Pupo qualche giorno fa, che è sicuramente vero per quasi tutti, non solo per chi lavora in ambito digitale e tecnologico, dato che le nuove tecnologie sono presenti nelle vite di tutti noi. La prima cosa che viene spontaneo fare a molti appena si ha un attimo di «tempo libero» è metter mano allo smartphone e controllare (social, mail o che altro). «Appena si ha un attimo», quindi un attimo vuoto dalle nostre attività, cerchiamo subito di riempirlo di un’altra attività. E ci troviamo con una sensazione di soffocamento, perché ci manca il tempo di respirare. E spesso ce ne priviamo noi stessi.

Ma a volte il segnale di sofferenza contiene parte della soluzione, il sintomo contiene simbolicamente la cura: se ci sentiamo soffocare possiamo respirare e per questo torno a suggerire la semplice ma non banale (sicuramente non scontata) pratica, che ho introdotto nel mio penultimo articolo: inserire almeno un respiro profondo fra un’attività e la successiva, se possibile “cambiando aria”, uscendo all’aperto. Un respiro profondo può durare una decina di secondi, eppure per qualcuno sono troppi, una concessione troppo grande, tempo perso o addirittura rubato al lavoro, al negotium. Per evitare il burnout, sia sul lavoro che fuori, è importante imparare a creare spazio, mettere delle pause nelle nostre vite, e accettare il senso di vuoto che questo può comportare.

Sentiamo il bisogno di essere sempre connessi, perché quando non lo siamo possiamo avere la sensazione di perderci qualcosa, ed è paradossale, perché siamo in contatto con la mancanza di qualcosa che non abbiamo ancora avuto. Ci relazioniamo, ci connettiamo attraverso strumenti e schermi, e quindi ci “schermiamo” dalle nostre relazioni e i nostri contatti sono “schermati”. Da che cosa ci proteggiamo? Probabilmente dall’angoscia che, approfondendo una relazione, potremmo soffrire per lo spazio vuoto lasciato qualora questa relazione finisse. Ma questo può portare a una vita e a delle relazioni anestetizzate, quindi etimologicamente senza sensazioni e, forse, anche senza molto senso. Non ho una soluzione a tutto questo, ma credo che la strada da seguire passi dall’accettazione del vuoto intrinseco nel nostro esistere.

Esiste lo stereotipo di andare in vacanza «per ritrovare sé stessi» ma, come si intitola un libro di Franco Michieli , per ritrovarsi bisogna prima perdersi e, aggiungo io, accettare di perdere. Già Carl Gustav Jung, nella prima metà del ‘900, sentiva la necessità di potersi allontanare dalla tecnologia del suo tempo, e si era fatto costruire una casa, la famosa Torre di Bollingen sul lago di Zurigo, pensata in modo che un uomo del ‘700 ci si sarebbe trovato a proprio agio, quindi senza corrente elettrica, acqua corrente e riscaldamento, solo con un camino e una fonte poco distante. Anche ora esistono possibilità di prendersi una vacanza digitale, più semplici dell’edificazione di torri, ovviamente.

Michieli, per esempio, scrive libri e propone corsi e viaggi in cui imparare a orientarsi senza strumenti né mappe, riattivando istinti naturali e assopiti. Esistono poi posti in cui non esiste connessione, campi in cui non c’è campo: per esempio sono stato a un festival musicale a Upega, piccolo borgo sui monti fra Piemonte e Liguria. Passata la sorpresa del non poter avvisare a casa in nessun modo col classico messaggio «Arrivato, tutto ok», non mi è restata altra possibilità che connettermi con la natura circostante e con gli altri partecipanti al festival, grazie anche a danze tradizionali che, invece che anestetiche, sono state assolutamente estatiche.

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