Inizia oggi, con questo articolo, una nuova rubrica di Eppen: #psicogeografie, che analizzerà alcune questioni psicologiche contemporanee partendo da alcuni luoghi del nostro territorio. A scriverne è Claudio Agosti, psicoterapeuta «errante», specializzato in analisi bioenergetica e formato in analisi junghiana, nonché appassionato di cammino e danze tradizionali.
Questo viaggio, come vi dicevo, inizia da uno dei cuori di Bergamo, da Piazza Vecchia. Al centro della piazza c’è la famosa Fontana Contarini e, fra le varie figure che la ornano, sono poste due sfingi. Nel mito di Edipo, la Sfinge è un mostro con corpo di leone, volto di donna e ali di uccello che pone un quesito a chi vuole percorrere la strada per giungere a Tebe, divorando chi non indovina. Edipo la sfida e trova la soluzione, rispondendo grazie al suo intelletto. Ma non entra in relazione con la Sfinge, col suo Mistero e col mistero dell’Umano al centro dell’enigma (la richiesta relazionale della Sfinge è stata intuita nel mondo dell’arte, come in un famoso dipinto di Gustave Moreau, che trovate qui sotto).
Edipo, da personaggio della «la rivista che vanta innumerevoli tentativi di imitazione!» quale è diventato, trova la soluzione dell’enigma e la Sfinge fugge urlando, lasciandolo alla sua soddisfatta e saccente ignoranza: il mito finirà in tragedia, come è noto (Edipo affrontò una specie di «Settimana Enigmistica» ante litteram).
Di fronte a qualcosa che irrompe nella nostra vita, qualcosa per molti versi incomprensibile, anche la nostra psiche è portata a rispondere con la razionalità, con la ricerca di soluzioni. Ma questo può essere un modo di evitare di entrare in relazione con la domanda di senso che un evento, per quanto funesto, ci pone. E, nella vita psichica, le domande a cui non diamo risposta, ci vengono riproposte.
È difficile restare in contatto con qualcosa al di fuori del nostro controllo, l’abbiamo provato tutti in questi ultimi anni. Cerchiamo una soluzione e, se questa non è a portata di mano, sentiamo che stiamo perdendo il controllo.
Con la pandemia, per esempio, molti hanno sentito il bisogno di essere e sentirsi costantemente aggiornati sull’andamento della situazione, sui numeri di contagi e morti. Il primo pensiero al mattino è di controllare le notizie, ossessione e compulsione che si ripetono più volte durante la giornata. Il controllare diventa esso stesso fuori controllo, non se ne può fare a meno, e questo può generare un corto circuito ansiogeno. In cui da un lato il non sapere genera un senso di vulnerabilità e dall’altro la realtà (e come questa viene narrata) continua a essere drammatica.
Nel caso della pandemia, sono state fornite a livello globale soluzioni più o meno valide. Sia le risposte che sono arrivate da canali ufficiali (vaccini, profilassi, precauzioni e cure) che quelle “alternative”, fornivano solo la soluzione all’enigma, ma è mancata da più parti la cura dell’aspetto relazionale e di senso di quello che stava accadendo a tutti. E forse questo ha contribuito al fatto che l’opinione (e l’azione) si è spesso polarizzata ai due estremi, invece che unirsi in una profonda solidarietà umana.
Non siamo entrati in contatto con la nostra paura di morire, con il trauma del nostro essere fragili e fallibili e ci siamo giocati una possibilità di unirci – seppur “a distanza” – come umani e terrestri, invece che dividerci su fronti illusoriamente opposti.
La stessa cosa si è ripetuta con ciò che sta succedendo in Ucraina. C’è una minaccia al di fuori dal nostro controllo, indipendente dalla nostra volontà, che potrebbe fare del male a noi o a chi abbiamo vicino. Ci si sente impotenti, disarmati, fragili, vulnerabili. Specialmente quando una soluzione non c’è. Allo stesso modo, si cercano in rete i propri sintomi, e non siamo tanto distanti emotivamente con il controllare le risposte a messaggi o le reazioni alle nostre attività on line.
Ci adoperiamo, insomma, per mantenere l’illusione di avere sotto controllo qualcosa che è impossibile lo sia: la malattia, la guerra, l’andamento dei mercati, le criptovalute, il successo, la popolarità, La Morte, il più grande Mistero con cui possiamo (o evitiamo) di confrontarci. Siamo portati quindi a controllare continuamente, sintomi, valori, notizie, «mi piace», reazioni, con gli strumenti più a portata di mano: telegiornali, internet, smartphone.
Rischiamo di trovarci incastrati in un circolo vizioso in cui il bisogno di controllare non è mai abbastanza. Continuiamo a cliccare “aggiorna”, a premere “ctrl R”, a approfondire la ricerca, a accendere lo schermo del cellulare, ma non siamo mai sazi. Paradossalmente, invece che placare la nostra ansia, questo controllare la alimenta, perché è solo un’illusione di controllo. Ma è comunque più facile da accettare che l’alternativa che ci resta: il nostro fallimento nel capire tutto, nell’avere tutto sotto controllo, nel confrontarci con l’imprevisto, l’inconoscibile.
Eppure è con questo che siamo costretti a confrontarci (e lo saremo sempre di più, considerando il riscaldamento globale e tutto ciò che ne può conseguire). La via da percorrere è quella della consapevolezza e dell’accettazione di sé, un contatto empatico con la nostra profondità, coi nostri abissi. Ci sono le nostre zone d’ombra, che possono spaventare, ma contengono anche tutto ciò che in noi è potenziale, e quindi potenza.
Ovviamente la risposta razionale e la ricerca di una soluzione non va scartata. Il pensiero e l’intelligenza sono strumenti molto potenti e utili, indispensabili per uscire da molte situazioni anche gravi. Ma non sono gli unici: non bisogna dimenticare una ricerca più profonda di senso, e la potenza del sentimento e del nostro sentire.
Torniamo a piazza Vecchia: osservando la fontana notiamo che una Sfinge guarda verso il palazzo della Ragione, l’altra verso la piazza, la strada e la biblioteca Angelo Mai. Di fronte al Mistero, potremmo anche noi provare ad avere due sguardi, due atteggiamenti: uno rivolto alla ragione, alla razionalità, e uno rivolto a qualcosa di più ampio, vario e mutevole, in cui poter incontrare l’Altro.