Estate di qualche anno fa, sto attraversando una delle tante fini in cui ci imbattiamo, volente o nolente, nel corso della nostra vita. Niente di sconvolgente, una persona con cui avevo un rapporto molto profondo aveva deciso di intraprendere una strada divergente da quella del gruppo in cui ci incontravamo. Ero al parco dell’Edoné e ho osservato il luogo in cui mi trovavo: un ex cimitero. Una decina di anni fa il parco era un po’ meno bello di come è ora, ma molto più accogliente di come poteva essere anni prima che aprisse l’Edoné, quando era in completo abbandono.
«Muoiono anche i cimiteri», mi sono detto. Pensando a come appare quel luogo ora, così pieno di eventi, soprattutto d’estate, è impossibile non notare il contrasto, ma anche l’abbraccio (e forse, a questo punto, la danza), di vita e morte.
Morte e Fine sono temi strettamente legati, e spesso non vogliamo vederle, non vogliamo occuparcene. Già nel 1955, Geoffrey Gorer, sociologo americano, parlava di «pornografia della morte»: come nell’epoca in cui scriveva Freud il grande rimosso era la sessualità, per Gorer è la morte a essere oscena, cioè ob-scena, tenuta fuori dal visibile. La morte è relegata agli ospedali, il lutto alle case del commiato e non alla casa dove ha vissuto chi è morto – e per chi resta il tempo per provare dolore, prima che questo diventi “lutto patologico”, è sempre più breve. D’altro canto molte “cure” terminali sembrano più ritardare la morte che prolungare la vita.
È sempre molto difficile stare con la morte, specialmente in un momento storico in cui, fra pandemia e guerra, la nostra attenzione a questo riguardo è forzatamente attivata. Da un lato la morte reale, “realistica” e non spettacolarizzata della malattia ci ha messo in contatto con la nostra impermanenza, con la nostra fragilità e con l’incertezza, tutti temi con cui la psiche razionale e il pensiero, faticano a stare; dall’altro la guerra e la minaccia di una catastrofe (quella nucleare, per esempio, per quanto improbabile è psicologicamente reale), ci mettono di fronte all’imprevedibilità di ciò che potrebbe succedere e, di nuovo, all’incertezza del futuro (e questo in qualche modo rientra in quel «controllare l’incontrollabile» che è stato il tema della prima puntata di questa rubrica).
Elizabeth Kübler Ross, psichiatra svizzera che si è occupata di elaborazione del lutto e incontro con la morte in caso di una diagnosi infausta, ha identificato cinque fasi con cui si vive questo processo: negazione, rabbia, contrattazione, depressione e, infine, accettazione. Credo che questa dinamica di elaborazione della morte stia avvenendo anche nei confronti della esposizione collettiva che stiamo vivendo.
Soprattutto la sfera di reazioni che riguarda la negazione e il rifiuto fino alla rabbia è stata sotto gli occhi di tutti, fino all’esasperazione delle teorie più estreme (non a caso definite «negazioniste») che, almeno in parte, possono esser viste come una difesa collettiva da una profonda angoscia di morte. C’è una parte di noi, sia di ognuno di noi che di noi-umanità, che non può accettare la propria finitezza, non solo la rifiuta, ma spesso la rimuove totalmente, relegandola nell’Ombra, nell’inconscio, col conseguente rischio di proiettarla all’esterno, identificando di volta in volta nell’Altro di turno nemici, untori, cattivi.
In un modo apparentemente paradossale, Alexander Lowen, il creatore di una forma di psicoterapia corporea, l’analisi bioenergetica, collega la paura di morire alla paura di vivere: quando siamo molto piccoli, la minaccia della perdita dell’amore equivale a una minaccia reale di morte e per evitare questa angoscia insostenibile sacrifichiamo una parte vitale di noi stessi. In questo modo si creano quelli che sembrano auto-sabotaggi, come il senso di colpa e altre tensioni – presenti sia a livello psichico, emotivo e muscolare – che diventano croniche. Nascono per proteggerci dall’angoscia di morte e diventano un ritirarsi dalla vita. Per uscire da questo cappio, Lowen suggerisce di «abbandonare la lotta» e accettare la nostra vulnerabilità, la nostra paura e il nostro dolore. È il primo passo per potercene prendere cura e lasciare andare queste tensioni che ci condizionano tutta l’esistenza.
Allargando il campo, ciò che mi sembra essere stato rimosso dalla psiche collettiva è il concetto più generale di Fine.
A livello individuale, possiamo vederlo per esempio nella difficoltà di accettare la fine di una relazione o la fine di un rapporto lavorativo. Come se queste fini rappresentassero la Fine della nostra identità e compromettessero la nostra stessa esistenza. A volte la reazione può essere anche drammaticamente violenta, verso se stessi o gli altri, tanto è forte la minaccia alla propria integrità che si sente. I casi di femminicidio per una separazione, o di suicidio dopo la perdita di un lavoro, sono purtroppo cronaca di tutti i giorni.
Questo avviene perché non si è integri, cioè ci sono parti di noi scisse, come se fossero separate dalla nostra totalità. Queste parti possono essere i nostri punti deboli o qualcosa che non vogliamo né vedere né mostrare, e quindi teniamo in Ombra. Non si ha quindi sviluppato un senso di solidità del Sè, che in psicologia analitica rappresenta la nostra totalità, psichica e corporea, la quale dà un senso di coerenza interno e quando manca ci induce a identificarci con qualcosa di esterno (un lavoro, una posizione sociale, uno status, una relazione). Invece, con un senso di sé abbastanza solido, sentiamo comunque gli scossoni causati da ciò che avviene all’esterno, ma il nostro “edificio” psichico non crolla. Siamo ciò che siamo e non ciò che facciamo (o abbiamo).
Un’altra situazione ricorrente nelle nostre vite è quando non accettiamo la Fine di uno stato di benessere, o temiamo che uno stato di malessere non abbia Fine. È sempre una Fine mancante, perché non la vediamo o non la vogliamo vedere, il nucleo della questione. E in questi casi può portare all’abuso di sostanze o psicofarmaci, ma anche di attività – quali sono ad esempio gli sport estremi o lo shopping compulsivo – che ci tengano “su”. Lontani da ciò che sentiamo, dal nostro abisso, dalla nostra profondità e da esperienze dolorose. Che potrebbero essere invece un’occasione per apprendere qualcosa su di noi.
Da un punto di vista collettivo, il riflesso di questa rimozione della Fine è visibile nel consumismo e dell’estrattivismo, che si illudono della possibilità di una crescita infinita, cieca di fronte alla finitezza e alla limitatezza delle risorse naturali. Da un lato vediamo un consumo che non è mai sazio di “cose” con cui riempirsi le case e le vite, lasciando a malapena spazio e tempo per respirare; dall’altro assistiamo al consumo globale delle risorse del pianeta, che sta portando le conseguenze sotto gli occhi di tutti, dal riscaldamento globale a una vera e propria estinzione di massa, in cui noi umani siamo un lento (ma non così tanto lento) meteorite.
Il poeta Andrea Zanzotto scrisse: «In questo progresso scorsoio / non so se vengo ingoiato / o se ingoio». In questa crescita senza limiti consumiamo e siamo consumati inesorabilmente. Il progresso non soddisfa bisogni, ma ne crea di nuovi, generando una frustrazione per ciò che non abbiamo e siamo portati a desiderare. Di nuovo c’è un disintegrarsi, una perdita di identità a causa della quale ci identifichiamo nel vuoto di ciò che non possediamo e perdiamo il senso di ciò che siamo.
Possiamo provare ad accettare che non possiamo avere tutto, vivere tutto, e che abbiamo una Fine, non programmata né prevedibile, ma sicura, e provare a rallentare? Viaggiare a piedi mi ha insegnato che nella lentezza il tempo diventa più denso e pieno, come se si vivesse “di più”.
La Fine è un paradosso che sembra togliere il senso a ogni esperienza: a cosa serve lavorare, amare, allenarsi eccetera se tutto deve finire? Ma a un livello più profondo è ciò che dà senso a tutto: proprio perché esiste una Fine ha senso vivere pienamente.
Mentre pensavo a questo articolo, ho ricevuto la notizia della morte, improvvisa e imprevedibile di un’amica. A volte la sincronicità è spietata. Penso a quanto siamo insignificanti, piccoli e trascurabili nei confronti dell’Universo, ma anche a quanto siamo dannatamente improbabili, e per questo preziosi. Ogni incontro che ci capita è prezioso e irripetibile. Mi ronza in testa un verso di «Sex with Sun Ra», una canzone dei Coil: «I implore you, explore all the people you meet» («Ti imploro, esplora tutte le persone che incontri») e sento che la domanda fondamentale e terminale riguardo ogni rapporto è: «Vi siete donati tutto ciò che potevate donarvi?».
Siamo in tempo di feste e regali: probabilmente il dono più prezioso che possiamo fare a qualcuno a cui teniamo è il nostro tempo, un frammento irripetibile e inestimabile della nostra vita.