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#psicogeografie: quando il gioco si fa collaborativo

Articolo. A volte serve un cambio di prospettiva per svelare i giochi relazionali che stiamo mettendo in atto e provare a fare un passo di lato per far “vincere” la relazione

Lettura 4 min.

Venerdì 7 giugno al parco Ermanno Olmi comincerà «UAU il festival», la manifestazione che Bergamo dedica al mondo di «illustrazione e cose belle». L’edizione di quest’anno ha come tema portante il gioco.

Come altre specie animali, anche noi umani amiamo giocare, e il gioco ha una funzione fondamentale per il nostro sviluppo, tanto che in un famoso libro la nostra specie è definita « homo ludens ». Come i gatti imparano a cacciare giocando quando sono cuccioli, noi umani impariamo competenze relazionali giocando. La psicologia dell’infanzia si è dedicata molto a quello che viene definito «gioco simbolico», che per me iniziava con un «Facciamo che io ero…» e proseguiva con avventure fantastiche. Quel tipo di fantasie è reale: quando ci siamo dentro, quella è la realtà, come quando sogniamo. Il sonno, e in particolare il sogno, è vita, non un semplice “stand by” in cui ci ricarichiamo.

Il gioco simbolico è importante anche da adulti, innanzitutto come forma di divertimento e socializzazione, ovviamente, ma rientra pienamente anche in alcune forme di psicoterapia, come per esempio nel «Gioco della Sabbia», terapia creata da Dora Kalff, allieva di Carl Gustav Jung, e praticata sia con bambini che adulti. La terapia consiste nel creare, giocando appunto, una scena in una sabbiera con delle statuine, come se fosse un fotogramma di un film (o di un sogno o di una fiaba), dando alla nostra psiche modo di creare quelle immagini che ha bisogno di vedere per avviare un processo di guarigione (per chi volesse approfondire, ho scritto qualcosa qui).

Tutte queste evidenze dell’importanza del gioco per la nostra esistenza, tuttavia, non sono conseguenze dirette dell’attività di gioco. Il giocare, a prima vista, sembra inutile, e questo lo lega ad altre attività grandiose e apparentemente insensate (ma rivelatrici di un senso che mi piace definire “verticale”, in quanto si estende contemporaneamente verso l’alto e in profondità) quali l’arte e il rito.

Tornando a Bergamo, «UAU il festival» non è l’unico evento relativo al gioco. «BerGAME», ad esempio, ha superato le dieci edizioni. Si tratta di un evento di più giorni dedicati al gioco, ed è organizzato dall’associazione Ludiverso, che da anni si occupa di diffondere i giochi da tavolo e di ruolo in città e in provincia. Un’iniziativa che trovo molto pregevole. Essendomi occupato per anni di gioco d’azzardo patologico (questa definizione è da preferire a “ludopatia”, in quanto a dare l’aspetto patologico non è la parte ludica ma quella dell’azzardo), trovo molto positivo il fatto che in locali pubblici si possa giocare e divertirsi senza il tema dell’azzardo e della vincita economica. Se c’è l’azzardo, secondo me, non si gioca, ma si è giocati dall’illusione (che deriva appunto da «ludo») di poter «vincere facile». In realtà la statistica (e anche la clinica) provano il contrario.

Una delle belle scoperte derivata dalla frequentazione dei giochi è stata per me quella dell’esistenza di giochi collaborativi, in cui chi sta giocando, lo fa “contro” il gioco stesso (o la probabilità, o la sorte). In pratica, o si vince tutti o si perde tutti. Nella teoria dei giochi, quelli competitivi sono definiti “a somma 0”, in quanto c’è chi vince (+1) e chi perde (-1), quelli collaborativi si definiscono invece “a somma positiva”.

Mi chiedo come sarebbero la nostra società e il mondo in cui viviamo se fin dall’infanzia ci venissero insegnati giochi collaborativi, invece che competitivi, o se si sviluppassero attività sportive in tal senso. Sono convinto che essere abituati fin dalla primissima infanzia a una logica che ci divide in vincitori e vinti, permei tutta la società e abbia conseguenze estese che vanno dal conflitto fra generi alla dicotomia fra “maschi alpha” e perdenti (probabilmente il genere maschile è ancora più invischiato in logiche competitive e agonistiche), allo sfruttamento delle risorse del pianeta, come se dovessimo “vincere” contro la natura; alla politica, in cui si cerca di superare il partito avversario e non si guarda al bene del Paese e della comunità. E credo che altri esempi possano venire in mente a chiunque.

Nel mio piccolo, occupandomi di persone e relazioni, mi accorgo spesso che affrontiamo una questione relazionale, non solo di coppia, ma anche organizzativa o lavorativa, secondo una logica competitiva.

Questo avviene, per esempio, tutte quelle volte che vogliamo o cerchiamo, e soprattutto quando riusciamo, a vincere una discussione. In particolare, quando lavoro con le coppie, a volte ho la sensazione che le due persone si stiano sfidando a una partita a ping pong o a una machiavellica sfida a scacchi, in cui c’è una perenne tensione e attenzione ad aspettare errori di chi sta dall’altra parte e ad attaccare senza perder tempo. Oppure si grida “al fallo”, come se ci fossero regole da rispettare e infrangerle possa rendere rendere passibili di squalifica. O ancora c’è chi ha un asso nella manica e, al momento giusto, può tirare con violenza e trionfo il “carico” pesante: «Sì, ma quella volta, nel 1902 tu hai…».

Sono tutte strategie, buone in campo (che sia di gioco o, peggio, di battaglia), ma pessime in una relazione. Cosa si spera di ottenere “vincendo”? 1 a 0, ma la relazione muore. Sebbene in controtendenza, rispetto alla logica competitiva in cui siamo immersi e a cui siamo abituati, è necessario non voler vincere e provare a entrare in una prospettiva collaborativa. Trasformare la discussione in un gioco a somma positiva, in cui cercare di vincere insieme. Ma come fare? È un continuo lavoro di consapevolezza, difficile da spiegare.

Mi vengono in mente due “metafore incarnate”, che suggerisco nel mio lavoro anche come esercizi corporei. Provare a parlare o discutere muovendosi insieme, fianco a fianco, nella stessa direzione. Confrontarsi camminando significa farlo guardando nella stessa direzione, mentre ci si muove verso un obiettivo comune. Nella mia esperienza, sia di terapeuta che di camminante, vivere nel proprio corpo una metafora la rende direttamente un’esperienza viva e più assimilabile e viene integrata più immediatamente (in senso letterale, senza la mediazione del pensiero e dell’intelletto).

Oppure, si può iniziare a stare uno di fronte all’altro, mani nelle mani e spingere. Questa è una prova di forza: il gioco a somma zero. Ma se entrambe le persone fanno un passo alla propria sinistra, mantenendo il legame e il movimento, questo genera una moto circolare, una sorta di danza o un girotondo a due. E questo è il passo laterale, il cambio di prospettiva che implica il passaggio a un gioco a somma positiva.

Fuor di metafora, l’invito è provare questo cambio di prospettiva, questo “scarto laterale”, comprendere che non siamo in un gioco competitivo e tentare di vedere la possibilità di un gioco collaborativo presente, più in profondità, ma forse appena sotto la superficie dell’apparenza. Non si tratta di vincere la discussione, ma di far vivere la coppia. Allargando il campo di visione: come umanità, non siamo divisi in due squadre. Non si tratta dunque di chi ha ragione e chi torto, ma di rendere possibile la pace. Non si tratta di una diatriba fra auto elettriche e centrali al carbone, ma di far sopravvivere la Terra.

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