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#psicogeografie: le linee che tracciamo

Articolo. Percorsi, confini, muri, limiti, sentieri e anche danze… Nel cammino della nostra vita possiamo disegnare diversi tipi di linee, ognuna con un significato psicologico diverso e importante

Lettura 4 min.

Questa estate ho avuto la possibilità di camminare molto. A fine agosto ho percorso un cammino nelle Foreste Casentinesi, più o meno come scrivevo qualche tempo fa, ho ripercorso i passi di leggendari di altri viandanti.

I segnavia si sovrapponevano fra vie «laiche», come l’Alta via dei Parchi, il sentiero europeo E1 o il Cammino di Dante (a volte accompagnato da Beatrice), e vie «religiose», sulle orme di San Francesco, Sant’Antonio, San Vicinio e molti altri, tanto che gran parte del percorso che ho seguito è denominato «delle Foreste Sacre». Sacre sia per le figure che l’hanno attraversate, ma anche per esser state curate per secoli dai frati camaldolesi. Ma Sacre anche perché costituiscono una riserva naturale protetta, in cui si respira a ogni passo qualcosa di antico. Una caratteristica interessante di questo Parco è che a volte dei cartelli indicano il divieto di uscire dal sentiero, proprio per preservare al massimo lo stato naturale di alcune zone di foresta. In quel punto ci sono due linee: una reale, il sentiero, che unisce due punti, e una immaginaria, un confine che segna un limite da non oltrepassare.

Un limite e un confine che in questo caso trovo molto sensati: un promemoria del fatto che non tutto ciò che esiste è a disposizione dell’essere umano, ma che c’è qualcosa più Sacro, con un valore maggiore della nostra brama di possesso del tutto, della nostra illusione di essere al vertice di evoluzione e creazione.

Non siamo i protagonisti della storia della Terra, siamo solo personaggi non necessari e, anzi, a volte dannosi: meglio che ce ne stiamo fuori.

Limiti e confini sono due concetti diversi

Tornando alle linee: limiti e confini sono due concetti diversi (parlando ora in termini psicologici). Spesso ci poniamo dei limiti troppo angusti e restringiamo la nostra libertà di vivere e esprimerci in nome di rigide regole auto imposte e paura di giudizi verso di noi che troppo spesso siamo solo noi a darci. Questa tendenza spesso inizia nell’infanzia, inconsapevolmente e nostro malgrado. Impariamo a trattenerci, spesso per evitare una minaccia peggiore, che sia una punizione o una forte angoscia, o il dolore, sia fisico che psicologico ed emotivo.

Trattenerci spesso significa trattenere il fiato e assumere contrazioni che poi diventano croniche e vanno a formare il nostro carattere, influenzando la nostra vita futura. A volte il lavoro psicoterapeutico è proprio quello di rendere più morbidi questi limiti, più flessibili e meno costrittivi. Una strada che spesso passa dall’accettazione di noi e dal volerci bene.

A volte, invece, dobbiamo costruire i nostri confini, che una storia di vita diversa può averci lasciato labili, poco definiti, troppo permeabili. Non capiamo bene cosa è dentro e cosa è fuori di noi, cosa è nostro e cosa dell’altro. Ci sembra che ci entri tutto, sentiamo tutto come se fosse nostro, e questo a volte fa molto male. In questo caso il lavoro terapeutico, almeno apparentemente, va in direzione opposta: si tratta di costruire, rinforzare, dare un sostegno che come un’impalcatura permetta alla psiche di creare una struttura in grado di reggersi autonomamente.

Alcune linee separano e insieme uniscono

Gran parte del sentiero era su un crinale, sul confine fra Romagna e Toscana. Quasi come se avessi il piede sinistro da una parte e il destro dall’altra. Di nuovo due linee, questa volta sovrapposte: crinale, confine e sentiero, cammino. Il fatto che questa volta le linee siano sovrapposte porta la metafora in un’altra direzione: la stessa linea da un lato separa (due regioni), dall’altro unisce (partenza e destinazione). Tante volte ci capita di sentirci in sospensione, come funamboli su una corda tesa fra due punti, in bilico fra il rischio di cadere da un lato e l’altro.

Mi ricorda la tensione fra opposti di cui scrive Carl Gustav Jung: capita spesso nella vita psichica di essere presi, o persi, fra due estremi: amore e odio, desiderio e ripulsione, libertà e legame, per fare solo alcuni esempi. Per Jung, possiamo oscillare come un pendolo fra questi due poli, oppure assumere la posizione eroica dello stare in questa tensione. Da questo sforzo può emergere qualcosa di nuovo, capace di tenere assieme opposti non conciliabili apparentemente: il simbolo.

In questo caso, forse, ciò che ha questo ruolo è il camminare, l’andare lentamente percorrendo un sentiero che è anche confine, crinale che separa e unisce. Fuor di metafora, a volte per risolvere il conflitto fra gli opposti in cui la vita ci infila in mezzo, occorre mettersi in gioco, creare movimento, ma un movimento trasversale, non un oscillare fra estremi che non porta da nessuna parte. Si tratta di fare uno scarto, un passo in una direzione che forse non abbiamo ancora esplorato, che forse ci è stata invisibile, finora.

Arrivo all’Eremo di Camaldoli

Dopo quattro giorni di cammino nelle foreste, arrivo, di sabato, all’Eremo di Camaldoli. Eremo immerso nelle foreste, ma raggiungibile in auto e dunque meta turistica. L’urto di un parcheggio affollato è stato di forte impatto, rispetto al silenzio dei giorni precedenti (anche se non ho viaggiato da solo, abbiamo attraversato solo piccolissimi borghi di montagna, con meno residenti che persone su un pullman di linea).

Quella notte ho dormito presso l’eremo e, appena sono entrato nella foresteria (termine quanto mai azzeccato: ero letteralmente un forestiero, veneto dalla foresta, da ciò che sta fuori), comunque separata dalla parte visitabile dai turisti, ho notato un’altra linea: il muro. Un sottile muro separava nettamente il dentro, in cui c’ero solo io e pochi ospiti, in un’altra ala, in un giardino silenzioso, dal fuori, di cui mi arrivava il vociare e il rumore dei motori in manovra. A volte i muri che costruiamo non sono pienamente efficaci? Forse manteniamo comunque un contatto con l’esterno? Sicuramente è bello sapere di poter decidere quando volgiamo stare nel mondo e quando sentiamo l’esigenza di tornare a noi. Possiamo costruire muri, ma non dimentichiamoci di mettere delle porte.

Un cammino non finisce mai davvero

Il mio cammino si è concluso a La Verna, monte divenuto sacro grazie al monastero fondato da San Francesco che proprio lì, 800 anni fa, avrebbe ricevuto le stigmate. Di nuovo respiro un dentro e un fuori che si mischiano e confondono, la quiete del monastero e il rumore del turismo, finché le porte si chiudono e dentro restano il silenzio, i frati e qualche pellegrino.

Nella settimana successiva ho partecipato a un corso di canto armonico al paese sottostante, Chiusi della Verna, in cui si tengono corsi di specializzazione musicale frequentati soprattutto da giovanissimi studenti di conservatorio. Nella piazza del paese, con un amico, abbiamo proposto spontaneamente delle danze popolari. Un’altra modalità di tracciare una linea, che si fa catena di corpi danzanti e che diventa un cerchio unito e in movimento.

Diversi giovani, del paese e musicisti, si uniscono alle danze e Kejdi, promettente flautista, propone di insegnarci una danza albanese, la Valle Kosovare, che balliamo insieme: musicisti, giovani di Chiusi, noi meno giovani cantanti armonici, una maestra di pianoforte. Creiamo un cerchio aperto, una nuova linea, una linea che finalmente unisce, oltre i confini di generazione, età, provenienza, professione, nella magia della musica e del ballo.

Pochi giorni dopo ritorno a casa, e, come mi capita sempre più spesso, fortunatamente, ho la prova che da certi viaggi non si torni mai veramente: la nostra meta momentanea, una tappa, forse resta alle nostre spalle, ma il viaggio resta dentro e continua.

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