Qualche giorno fa, chiacchierando con qualcuno, è uscita una battuta relativamente frequente di questi tempi per cui presto tutti i nostri lavori, anche quelli creativi, saranno sostituiti dalle intelligenze artificiali, e noi non saremo più necessari. Da profano dell’informatica, ma da assiduo frequentatore delle peggiori distopie di letteratura e cinema (fantascientifiche e non solo), questo mi ha fatto riflettere, soprattutto per quanto riguarda i campi che più mi interessano: il lavoro relazionale (nel mio specifico: l’analisi); e il campo dell’arte, della creatività.
Una piccola premessa: tolta una base di cultura generale, sono relativamente ignorante in materia di intelligenze artificiali, ma non mi sento particolarmente scettico o negativo a riguardo, mi interessa qui riflettere su quelle caratteristiche dell’umano che non credo siano riproducibili (e che, a quanto ne so, nessuno sta cercando o ipotizzando di riprodurre).
In una recente serie di Brit Marling e Zal Batmanglij, « A murder at the end of the world », un ricchissimo e geniale imprenditore, attivo nell’ambito delle nuove tecnologie e dei nuovi media, ha elaborato una sorta di assistente virtuale, una forma di intelligenza artificiale che gli fa da messaggero, segretario, maggiordomo e anche, in qualche modo, confidente e psicoterapeuta. Senza spoilerare la serie, di cui consiglio la visione – la coppia creativa Marling / Batmanglij merita sempre attenzione – c’è qualcosa di freddo e sterile nell’empatia programmata dell’intelligenza artificiale.
Esistono ed esisteranno bot, software di conversazione, sempre più raffinati e in grado di fornire risposte “giuste” sia a domande specifiche che a questioni più ampie e personali. Ma l’empatia simulata o programmata non può essere pari a quella che dà l’esperienza antica e viscerale di essere «due animali in una stanza», come la definiva Wilhelm Reich, uno dei padri della psicoanalisi a mediazione corporea e “nonno” dell’Analisi Bioenergetica, e come recita il titolo di un bellissimo libro di Christoph Helferich che descrive cosa succede nella stanza analitica. Negli ultimi anni la psicoterapia online si è diffusa moltissimo, specialmente dalla pandemia in poi. Questo è sicuramente un bene, in quanto ha migliorato l’accessibilità alla cura di sé, anche se personalmente preferisco lavorare in presenza e limito la terapia online a necessità contingenti o geografiche. Ma anche nella terapia online sono presenti due corpi. Questo è il discrimine fondamentale, secondo me. L’empatia è essenzialmente una funzione del corpo.
Negli strumenti musicali a corda, quando una corda viene pizzicata, un’altra corda vicina, se accordata sulla stessa nota, inizierà a vibrare senza essere stata toccata fisicamente: entra in risonanza. Gran parte del mio training in analisi bioenergetica è stata dedicata ad allenare la mia capacità di entrare in risonanza con quello che sta “suonando” il corpo, vivente e vibrante, di chi mi sta di fronte e questo, come per le corde di una chitarra, è più facile se si è nella stessa stanza.
La parola «accordare», che ha un senso sia in musica che nelle relazioni, ha un’etimologia interessante: ingenuamente speravo derivasse da cor, cordis, cuore. Deriva invece da chorda che definisce il budello, l’intestino, con cui si fabbricavano le corde in antichità. Bellissimo: ancora più viscerale! L’intestino ha una quantità di terminazioni nervose paragonabile a quella del cervello, tanto da esser definito «il secondo cervello» (io, invece, tendo a definire il cervello come «il secondo intestino», data l’incontrollabilità e l’urgenza che a volte contraddistingue il pensiero, tralasciando battute facili sulla qualità di molte cose che si pensano). L’etimologia, quindi, ci riporta profondamente al corpo: per accordarci e entrare in risonanza con l’altro, abbiamo bisogno di viscere.
Questa è una differenza fondamentale: le macchine non hanno un corpo, non hanno viscere, non “fanno la cacca”, e in questo saranno sempre, in qualche maniera, distanti, per quanto raffinata e affinata possa essere la loro capacità di percepirci (qualche anno fa, a una formazione sul gioco d’azzardo, ci parlarono di slot machine capaci di sentire, attraverso la sudorazione dei polpastrelli, il livello di attivazione del giocatore, e riuscire in tal modo a dare il giusto rinforzo per mantenerlo agganciato; pur senza sensori i vari algoritmi dei social network agiscono in modo simile).
Oltre all’importanza dell’empatia, cioè il sentire insieme la stessa cosa e prendersene cura in due (o in gruppo), la psicoterapia in generale, e l’analisi in modo particolare, non è solo l’applicazione di protocolli di domande e risposte, ma una danza che si costruisce insieme di momento in momento, anche e soprattutto seguendo strade sbagliate e vivendo quell’esperienza.
In una tavola del «Rosarium Philosophorum», un libro di alchimia che Carl Gustav Jung ha usato per raccontare cosa avviene in analisi in «Psicologia della traslazione» (similmente a quanto fatto da Helferich nel libro citato prima), ci sono un uomo e una donna seduti sui bordi di una fontana, con i piedi immersi nell’acqua. Per Jung la situazione in cui ci si trova in psicoterapia è simile quello che avviene in quell’immagine: due persone sono in relazione, e i loro piedi sono immersi nella stessa acqua. L’acqua, per Jung, è l’inconscio, una sorta di fluido in cui i confini non esistono e fenomeni di risonanza e accordo avvengono naturalmente nel profondo, sotto il livello della coscienza.
Le macchine non hanno un inconscio, anche se Philip K. Dick si chiedeva se gli androidi sognassero pecore elettriche, quantomeno un inconscio con cui è possibile lavorare, una sorta di saggio antenato con cui comunicare e interagire nella nostra ricerca di senso. Dalla stessa fonte, l’inconscio personale e collettivo, sono convinto venga tanta dell’Arte che più mi interessa, ovvero dall’incessante dialogo con quel Mistero fuori dal tempo che è parte di noi e di cui noi siamo parte.
Nel campo della creatività, altro ambiente in cui si teme che l’intelligenza artificiale possa sostituire l’umano, l’intuizione gioca un ruolo fondamentale, e l’intuizione è una funzione che non si può insegnare, non si può programmare, ma arriva spontaneamente quando attiviamo un diverso livello di ascolto e di attenzione. Di nuovo, sono convinto che anche la vera creatività, la capacità di generare, nel senso di far nascere qualcosa di vivo – e le opere di creatività sono vive, e comunicano – sia una facoltà di chi ha un corpo.
Un film bellissimo, nella sua tristezza, che illustra bene l’impossibilità di una relazione di amore fra umano e intelligenza artificiale è «Her» di Spike Jonze , in cui è raccontata la storia d’amore fra il protagonista umano e il sistema operativo del suo avanzato device portatile. Una storia d’amore impossibile, secondo me, proprio per la mancanza del corpo nella relazione, limitata a una interazione intellettuale, per quanto coinvolgente emotivamente e sentimentalmente.
Poco sopra ho scritto «spontaneamente», ma mi sono corretto: stavo per scrivere «automaticamente». Senza essere pedante, neanche con me stesso, cerco di evitare quella parola, preferendo «naturalmente»: non siamo macchine, siamo animali imperfetti e fragili, e questo ha una sua bellezza ineffabile, che ben descrive Mariangela Gualtieri – poeta che ha scritto fra l’altro « L’incanto fonico », un libro sull’arte di dire la poesia che molto riporta all’importanza vitale del corpo – in una sua celebre poesia: «Quello che siamo / è prezioso più dell’opera blindata nei sotterranei / e affettivo e fragile. La vita ha bisogno / di un corpo per essere e tu sii dolce / con ogni corpo».