Troppo spesso emergono nelle cronache casi di abusi subiti da persone che si trovano all’interno delle carceri italiane (proprio in questi giorni si parla del carcere di Trapani ), e spesso le condizioni di vita standard rasentano (e talvolta superano) il limite con la tortura, anche a causa del cronico sovraffollamento delle celle, portando qualcuno fino al suicidio. Fëdor Michajlovič Dostoevskij scriveva che «Il grado di civilizzazione di una società si può misurare entrando nelle sue prigioni». La carcerazione dovrebbe avere come scopo primario la rieducazione, la riabilitazione dei detenuti, e non la punizione. L’effetto deterrente, insomma, dovrebbe essere secondario, ma purtroppo, per varie ragioni che sarebbe fuori luogo discutere qui, tutto questo non funziona.
Una canzone dei Coil, un gruppo inglese di musica sperimentale, «A cold cell» (ne potete sentire una versione qui) è una sorta di preghiera per la salvezza dalla pena di morte, da manette, da quello che possiamo immaginare sia esser costretti in una fredda cella. Quando la sentii per la prima volta mi commosse, come tutto il disco «The Ape of Naples», peraltro, uscito postumo dopo la morte di uno dei membri, John Balance, che fra l’altro scriveva i testi e li cantava.
A volte cogliamo il senso di un’opera d’arte solo se ci approcciamo a essa in una prospettiva diversa, può succedere quando riguardiamo un film a distanza di anni (a me è successo con «Arancia meccanica», per esempio, che mi ha dato brividi diversi visto da adolescente e da adulto) o quando guardiamo un quadro in contesti diversi; a volte cambia la nostra percezione, il senso intimo che risuona in noi, e a volte ciò che cambia è il senso intrinseco dell’opera, che riusciamo a cogliere meglio. Mi è successa una cosa di questo tipo proprio con «A cold cell». Anni dopo il primo ascolto, ne sentii una versione registrata dal vivo a Bologna (se ne trovano anche video, cercando in internet. Non essere andato a quel concerto resta uno dei grandi rimpianti della mia vita) e John, nell’introduzione, dice: «This is dedicated to all people in prisons, physical prisons and prisons of their own making», dedica la canzone a tutte le persone in prigione, sia prigioni reali che prigioni che si sono costruite da sé. Quella che sembrava essere una toccante canzone sulle condizioni carcerarie, inizia a gettare una luce anche sulle nostre prigioni psichiche.
La sensazione di essere ingabbiati in una situazione, di sentirsi imprigionati è molto frequente e spesso è facile riconoscere che ci si infila da sé in queste gabbie. William Blake scriveva che «Le prigioni sono costruite con pietre di Legge»: quali sono le regole che ci imponiamo? Perché succede, e come?
Se immaginiamo delle sbarre, possiamo intuire che cambiano funzione a seconda di come le si guarda: possono tenere dentro o tenere fuori: se da un lato imprigionano, dall’altro possono proteggere da minacce esterne, come le inferriate di molte finestre. Questo mi ricorda da vicino il concetto di corazza caratteriale sviluppato da Wilhelm Reich (che, fra l’altro, vittima dei pregiudizi dell’epoca maccartista, morì in carcere), allievo di Sigmund Freud e “nonno” dell’analisi bioenergetica, in quanto terapeuta e mentore di Alexander Lowen: per difenderci da una sofferenza psichica troppo grande, che quando siamo molto piccoli ci devasterebbe, impariamo a proteggerci negando parti di noi, soffocando (letteralmente: lo facciamo anche trattenendo il respiro) emozioni giudicate negativamente e per farlo impariamo a irrigidire dei muscoli.
Queste tensioni, psichiche, emotive e muscolari, diventano croniche e formano il nostro carattere che, nella teoria dell’analisi bioenergetica, è un costrutto psico-corporeo, coinvolge cioè sia il corpo che la psiche. Come le sbarre, una corazza pesante limita i movimenti, ma protegge da colpi che potrebbero essere letali (sì, realmente letali: non sottovalutiamo la portata delle ferite psicologiche sulla sopravvivenza).
Poco sopra, scrivevo che alcune emozioni possono essere “giudicate” come negative. Ma chi le giudica in tal modo? Chi è questo giudice? Da quanto scritto finora, è naturale pensare che sia una parte di noi che, in un qualche modo a volte paradossale e controproducente, vuole proteggerci. Spesso nasce dall’interiorizzazione di pressioni esterne, quando facciamo nostri dei divieti, degli ostacoli al raggiungimento del piacere per paura di punizioni, dolore e frustrazione.
Ci protegge, nascondendoci e limitando la nostra libertà, dal mondo esterno, dalla pena capitale, ma anche dalla pubblica gogna, dal sentirci esposti allo sguardo altrui che percepiamo, appunto, giudicante. Spesso lo sguardo altrui è indifferente e questo giudizio è il nostro, che proiettiamo all’esterno. Questo giudice, insomma, è qualcosa che interiorizziamo, nostro malgrado, e poi possiamo proiettare all’esterno sentendoci giudicati da “gli altri”…Che casino che siamo! Il tutto per infilarci e non uscire da un’angusta e fredda cella (spesso se c’è un freddo interiore, c’è della paura, come scrivevo il mese scorso a proposito dei nostri ghiacciai interiori), che a volte arrediamo e trasformiamo in una scomoda e paradossale “zona di comfort”.
A volte queste punizioni che temiamo e tanto ci spaventano, valgono solo per una parte di noi e non per la totalità del nostro essere. Bisogna patteggiare col giudice e renderlo alleato a sé, e per far questo accogliere le parti di noi spaventate che ancora temono una punizione esagerata, talmente grande da essere inconcepibile, proprio perché fantasmatica, ha più a che fare con fantasmi del passato, che con la realtà attuale. Mi incuriosisce l’uso degli stessi termini nel campo giuridico e in quello religioso: colpa per esempio evoca un giudice inflessibile o una divinità adirata! Psicologicamente, ci sentiamo in colpa quando sentiamo di essere sbagliati, non solo di avere sbagliato.
Se riusciamo a entrare in questa prospettiva, ci possiamo assumere la responsabilità del nostro eventuale errore e porvi rimedio, senza infilarci in qualche prigione interiore! La psicoterapia aiuta a facilitare questo dialogo interiore, naturalmente, nel percorso le varie parti di cui la nostra psiche è composta si mostrano, vengono alla luce e richiedono la nostra attenzione. Quando finalmente siamo in grado di dargliela, qualcosa si scalda e qualche nodo si scioglie, rendendoci ogni volta un po’ più liberi, un po’ più noi stessi.
Parafrasando Dostoevskij, forse anche lo stato di benessere della nostra Psiche si può misurare dalle sue prigioni, da come sono trattate le parti prigioniere e dalla rigidità di quelle giudicanti. Possiamo quindi provare a prenderci cura sia delle parti di noi che sono imprigionate che di quelle, a loro volta in carcere, che ritengono di doverle tenere prigioniere per proteggerci.