«Remember to say “thank you” for the things you haven’t had»
(Coil, «Broccoli»)
Camminando fra Città Alta e i colli, ho visto una strada che non ho mai percorso. Una semplice via del borgo, dove tuttavia non ero mai passato. Anche nella nostra vita affrontiamo un’infinità di scelte, una serie di bivi in cui dobbiamo scegliere una possibilità, abbandonando le altre. E se a una strada possiamo tornare, a una scelta spesso no. La viuzza in questione è una semplice strada a fondo chiuso, ma le strade che nella vita non ho percorso dove mi avrebbero portato? Probabilmente alcune si sarebbero rivelate strade a fondo chiuso o perdite di tempo, ma come posso saperlo?
Certo è che non possiamo avere tutto e, similmente, non possiamo provare tutto. E dobbiamo fare i conti con il lutto per le esperienze non fatte. Non sento una grande differenza, da un punto di vista psichico e emotivo, fra la tendenza a accumulare oggetti e quella ad accumulare esperienze. L’accumulo nasce da una per-versione (nel senso di «stortura voluta») del desiderio causata, a mio avviso (e non solo mio: questa visione l’ho sentita formulata da una collega brasiliana), dalla società dei consumi. I media e la società consumistica in cui viviamo mantengono il desiderio a uno stadio immaturo e infantile, in gergo tecnico «pre-genitale».
Nell’ottica dello psicoanalista Wilhelm Reich, mentre un desiderio maturo e sano, una volta soddisfatto (come avviene in un orgasmo completo), lascia in un senso di pace e pienezza, un desiderio immaturo non è mai sazio, e genera una sorta di bulimia proprio in quanto è legato più alla necessità di nutrimento che alla ricerca di piacere. Si tratta, appunto, di un desiderio di carattere orale che è legato a una fame primordiale che può essere insaziabile. E quindi rincorriamo le varie edizioni limitate o offerte last minute “prima che sia troppo tardi”, in una foga di avere tutto, di provare tutto.
Ma questa foga può essere anche una fuga , probabilmente dal sentire il fatto che ad essere limitato è il nostro tempo e, di conseguenza, la nostra possibilità di esperienze. E che per noi, presto o tardi, arriverà un last minute, per richiamare il tema delle ultime #psicogeografie. Corriamo e ci affrettiamo non verso qualcosa, come potremmo illuderci, ma fuggendo da qualcosa: l’angoscia di morte o l’horror vacui, il terrore del vuoto. E come fare amicizia col vuoto? La pratica più semplice e a portata di mano è il respirare: possiamo riempire pienamente i nostri polmoni solo se prima li abbiamo svuotati. Sembra banale, ma da un punto di vista psico-corporeo il nostro modo di respirare è simbolo di molti aspetti della nostra vita, per esempio di come siamo in grado di trattenere e lasciar andare. E ciò che blocca o limita il nostro respiro è parte della nostra biografia e racconta di come, nostro malgrado, abbiamo sacrificato parte della nostra vitalità per sopravvivere.
Secondo alcune teorie della fisica, rese popolari da certa fantascienza cinematografica, ogni nostra decisione può generare un universo parallelo in cui abbiamo optato per un’opzione differente. Questo da un lato può essere consolante (da qualche parte nel multiverso un altro me è un cantante famoso?) e lenire parzialmente il lutto per ciò che non abbiamo potuto vivere; da un altro può essere terrificante (non oso immaginare quanti “me” siano morti attraversando nel momento sbagliato!).
«Everything Everywhere All at Once», un recente film dei Daniels, si basa proprio su questa teoria. Senza svelare troppo la trama, Evelyn Quan Wang, la protagonista, viene scelta come potenziale salvatrice del multiverso perché, fra tutte le Evelyn alternative, è quella che ha fallito in tutto e, quindi, può attingere dalle risorse delle altre Evelyn di successo. Il film poi si svincola, secondo me egregiamente, dalla fantascienza fine a sé stessa e entra a pieno nella realtà emotiva dei protagonisti. Al di là di questo, il film centra una realtà psicologica molto importante: è nelle nostre parti più deboli, brutte e cattive, fallimentari e “sfigate”, che abbiamo potenziale di crescita. Sono quelle parti che releghiamo nell’«Ombra», un gigantesco cassetto psichico in cui infiliamo, spesso inconsciamente, tutte quelle parti di noi che non vogliamo mostrare, soprattutto e prima di tutto a noi stessi.
Come scriveva Carl Gustav Jung in «Psicologia e Alchimia», la vita non ha bisogno di perfezione, ma di completezza, e spesso è proprio dentro di noi e nella nostra stessa Ombra che possiamo trovare ciò che ci completa, non all’esterno. La ricerca di una completezza fuori di noi può portare a compulsione e illusione, e alla ricerca insaziabile di cui scrivevo poco sopra.
In un sogno molto importante per la mia vita mi ritrovavo in una specie di labirinto in cui i pannelli delle pareti rappresentavano episodi della mia vita. Ritornandoci ora con il pensiero, non ricordo bivi, ma una sorta di unica tortuosa strada. Forse questa via senza alternativa stava a significare che il momento attuale è il risultato di ogni mia singola scelta e, in qualche modo, non poteva andare diversamente. Questo non a negare il libero arbitrio, ma più semplicemente a mostrare l’unicità del «qui e ora».
Esistono diversi tipi di labirinti: quello «multicursale», che abbiamo presente nella mitologia greca e che troviamo nelle riviste di enigmistica, in cui ci sono bivi e biforcazioni che spesso portano a vicoli ciechi.
Esiste poi un labirinto «unicursale», che troviamo in incisioni rupestri o, se di matrice cristiana, in molte cattedrali. In questo tipo di labirinto, una via tortuosa conduce alla meta, senza bivi. Simbolicamente può rappresentare il fatto che, indipendentemente da quanto aggrovigliata e contorta possa apparirci la nostra via, conduce inevitabilmente al nostro destino. Nell’interpretazione cristiana, questa può essere l’unica Via verso Dio, da un punto di vista psicologico, può rappresentare la strada dell’individuazione, che porta al Sé, che è ciò che siamo, realmente e nel profondo. Lo psicoanalista James Hillman, per descrivere l’individuazione, usa l’immagine della ghianda, che diventerà inevitabilmente una quercia.
Mentre da un labirinto «multicursale», solitamente, dobbiamo uscire, spesso, in un labirinto «unicursale», dobbiamo entrare e arrivare al centro. Il centro, in psicologia analitica, rappresenta proprio il nostro Sé, la nostra completezza e compiutezza. La risposta, insomma, è davvero dentro di noi. «Epperò (non) è sbagliata», parafrasando a modo nostro Guzzanti in un noto sketch: è alla fine di una strada tortuosa.