«Chi viaggia attraverso l’Europa viaggia sempre sulle orme di qualcun altro. Sotto ogni strada c’è un sentiero percorso nel tempo da pionieri, migranti, mercanti e conquistatori». Questa frase di Mathijs Deen, che ritorna spesso nel suo «Per antiche strade», descrive bene la sensazione che si prova in luoghi ricchi di Storia e di storie. Nel libro, l’autore compie un viaggio per le strade europee e combina efficacemente il racconto del presente con la narrazione di un passato storico e mitologico in cui i passi dei nostri antenati hanno percorso i tracciati che ora sono spesso coperti da asfalto, e che percorriamo tutt’ora, spesso in auto e a gran velocità. Io stesso ho avuto la sensazione di star seguendo qualcuno, a distanza di chissà quanto tempo quando, di fronte a un santuario sperduto nel cremonese, ho visto scritta su un guard rail una freccia che indicava la direzione per Roma, un segnale per pellegrini (ne ho scritto qui, nel mio primo articolo per Eppen).
«Il mondo si rivela a chi viaggia a piedi» dice Werner Herzog, grande regista e scrittore, nonché viaggiatore a piedi: fra le sue varie imprese, non solo cinematografiche, ha compiuto una sorta di pellegrinaggio laico da Monaco a Parigi, per salvare un’amica critica cinematografica ricoverata in ospedale. Ne ha tratto un libro: «Sentieri nel Ghiaccio», e fra qualche settimana nell’arena estiva S. Lucia proietteranno un film in cui un giovane regista ne ripercorre i passi (il 18 luglio). Credo quindi che viaggiare a piedi, o comunque quanto più lentamente possibile, aiuti a percepire ciò che resta dei passi di chi ci ha preceduto. Come se nella lentezza ogni istante si espandesse, aprendo scorci e finestre che permettano allo sguardo di andare oltre, nel mondo e in sé.
Percorrere vie storiche amplifica queste sensazioni: la via Francigena conserva ancora alcuni tratti di selciato romano, come la via degli Dei. Qualche settimana fa ho percorso la via Vandelli, un’antica strada che collegava Modena a Massa, valicando l’Appennino e le Alpi Apuane. In questo percorso si sente davvero di camminare nella storia. Procedendo in ordine storico e non geografico, si incontra il cosiddetto Ponte del Diavolo, un lungo monolite naturale scavato dall’acqua e probabilmente percorso dai nostri antenati, immagino più per scopi di culto che per necessità (non scavalca un avvallamento troppo profondo, mentre presenta incisioni e coppelle che si notano anche in altari preistorici). Si incontra poi una capanna celtica, attualmente in restauro ma che conserva ancora la sua forma originale. Lunghi tratti di selciato del 1700 sono ancora intatti, come i terrazzamenti nella zona delle Alpi che rendono percorribili i ripidi dislivelli. Molte delle antiche locande, costruite per offrire riparo ai viandanti e alle carrozze, esistono ancora, e spesso ne conservano la funzione: sono diventate alberghi e rifugi in cui è tuttora possibile fermarsi.
Più vicino a noi, il complesso delle vie Mercatorum e la via Priula raccontano storie simili e forse ancora più complesse. Le vie Mercatorum erano un complesso di sentieri e mulattiere nelle valli bergamasche, create a scopo commerciale, come si deduce dal nome. La via Priula è successiva e collega Bergamo a Morbegno (e da lì alla Svizzera), scavata nella pietra per evitare i dazi richiesti per il passaggio, più comodo, dal lago di Como. Per questo il piccolo borgo di Cornello dei Tasso è stato abbandonato, dopo che la via Priula, che passava più in basso, l’ha “tagliato fuori”, e tutt’ora non è raggiungibile in auto, nonostante fosse un centro nevralgico fondamentale, come testimoniano la strada coperta e il piccolo ma bellissimo museo dedicato alla famiglia Tasso (quella di Torquato) e al sistema postale europeo, rivoluzionato proprio da quella famiglia (anche il termine Taxi deriverebbe da loro).
Ho percorso quelle strade la prima volta con l’associazione Repubblica Nomade, il primo viaggio a piedi parzialmente organizzato da me, e più volte negli anni successivi. Anche in quel caso la Storia e le storie sono ovunque, fra selciati antichi, vecchie locande, castelli in rovina, la dogana al passo San Marco e le tristi trincee della prima guerra mondiale, sempre vicino al passo. Ci sono luoghi che vengono abbandonati e riprendono vita, come Cornello dei Tasso o le locande che sono tutt’ora attive. Altri invece decadono nel loro abbandono, come succede alle più recenti case cantoniere (lo racconta un recente articolo del Post). Come le locande – riadattate, abbandonate o abbattute – delle vie storiche, questi moderni edifici rossi raccontano di tempi in cui il viaggiare, sebbene già motorizzato, era leggermente più lento che ora. Alcune hanno una nuova vita, ma molte sono in stato di abbandono, non hanno più una funzione.
Purtroppo a volte perdono il loro senso anche le strade, specialmente nelle città, che sono sempre più pensate a misura di automobile e meno a misura umana. La strada che collegava l’Acropoli di Atene al tempio di Eleusi, per fare un esempio legato alla Storia e al mito, non è più percorribile in quanto interrotta da un aeroporto. Allo stesso modo, molte zone urbane sono poco sicure per chi si muove senza un motore: le città sono, in parte, invivibili.
Anche nelle nostre strade interiori, nella nostra personale geografia psichica e emotiva, possono esserci luoghi che hanno avuto una “funzione”, un senso e l’hanno perduto. Capita spesso di associare alcuni posti alla relazione che abbiamo con essi e a esperienze che abbiamo vissuto lì. E se un’esperienza diventa dolorosa, se per esempio frequentavamo un luogo con una persona e il rapporto con questa cambia drammaticamente, possiamo non voler più passare in quel posto. Lo abbandoniamo e, per noi, rischia di morire, e con esso, di conseguenza, la nostra libertà di movimento si riduce.
Possiamo, però, provare a risignificare questi luoghi, affacciandoci a essi con garbo e cautela, come se dovessimo tornare a fare amicizia col genius loci che li abita, portandogli in dono la nostra presenza, eventualmente tornandoci con qualcun altro. Se un luogo perde o cambia in peggio di senso, sta a noi il compito di dargliene uno nuovo, e sono convinto che il tornare, il movimento dunque, possa aggiungere (o forse raggiungere) un nuovo senso. Non è un compito banale né semplice: siamo noi a dover dare un senso a quello che ci succede, nel bene o nel male, e questo comporta una grande responsabilità, ma ci dà anche una grande libertà.