Mi è capitato spesso, troppo spesso, di camminare in sentieri immersi nel verde e di imbattermi in rifiuti abbandonati. O di notare mozziconi di sigarette ovunque, a terra. Questo genera in me un misto di sentimenti e emozioni, che vanno dallo schifo alla rabbia alla delusione. Trovo inaccettabile che ancora si sporchi così l’ambiente volontariamente e con leggerezza, con la consapevolezza della situazione estrema che stiamo vivendo. Se posso, raccolgo rifiuti altrui, almeno in natura. Con un piccolo gioco di parole, mi chiedo: perché dare un rifiuto alla Terra? A cosa sta dicendo «no» chi sporca boschi o città?
Negli ultimi tempi si è parlato molto di «ecoansia», soprattutto a seguito dell’intervento di una ragazza che è stato ripreso in televisione ed è successivamente rimbalzato su tutti i media. Qualche settimana fa, il numero 1526 del settimanale «Internazionale» (uscito il 25 agosto) riportava ben due articoli, su cui mi dilungherò fra poco, a riguardo: un intervento di Rebecca Solnit e un articolo di Jia Tolentino, pubblicato originariamente sul «New Yorker».
Il prefisso «eco» si riferisce ovviamente all’ambiente, ma il termine «ansia» spesso indica un malessere psichico, che talvolta necessita di essere curato con farmaci. A mio parere, questo termine rischia di spostare l’attenzione e di patologizzare quel sentimento distraendo dal vero problema. Il problema è la crisi climatica, di origine antropica, e le sue conseguenze, non le reazioni a questo. Anche nel termine «ecovandalismo» il prefisso «eco» è usato per distogliere l’attenzione dal problema reale: non è più considerato vandalo chi inquina o abbandona rifiuti, ma chi protesta per l’ambiente in modalità che possono non piacere, ma il cui messaggio è urgente.
Una generazione al momento con poco potere (spesso in età inferiore al diritto di voto) sta cercando di attirare l’attenzione di chi il potere lo detiene sul fatto che il suo futuro è in pericolo. Ovviamente il futuro di tutti noi è in pericolo, ma spesso chi protesta ha più futuro di chi inquina. I metodi utilizzati da gruppi come Extinction Rebellion, Fridays For Future o Ultima Generazione possono non piacere, ma non devono distogliere dall’urgenza e dall’importanza del messaggio. Stiamo vivendo la sesta estinzione di massa (la quinta, per intenderci, è stata quella dei dinosauri), e ne siamo in buona parte causa. Come per parte dei problemi che ci creiamo e che incontro nel mio lavoro, la buona notizia è che se ne siamo causa, possiamo esserne anche la soluzione, cominciando ad assumercene la responsabilità.
Tornando all’ecoansia, si tratta di una forte preoccupazione per la condizione dell’ambiente, che può trasformarsi in un’angoscia molto intensa. Ma, a differenza di altri tipi di disturbi, come possono essere la paura di parlare in pubblico o l’ansia quando si deve intraprendere un viaggio, qui la fonte ansiogena è reale, giustificata e ci riguarda tutti. Come fare, allora, a sostenere il benessere psicofisico di ognuno, senza negare la realtà, che il problema è l’illusione della possibilità di una crescita infinita e incurante del pianeta in cui viviamo? Innanzitutto, come è successo per pandemia e guerra, si può comprendere da dove viene e evitare il doomscrolling, come scrivevo qui.
Spesso definiamo «ansia» qualcosa che forse non lo è, e diamo a una attivazione fisiologica, naturale e sensata una connotazione patologica. Se mi batte forte il cuore prima di un esame, se mi preoccupo per una prova importante, se un incontro con una persona particolare mi attiva, forse quello che sentiamo è proprio un’attivazione, il nostro sistema corpo-mente che si prepara a un evento particolare. Non dimentichiamo che, mentre il mondo della tecnica si è evoluto immensamente negli ultimi decenni, il nostro corpo è ancora quello dei nostri antenati che dovevano fronteggiare predatori o rincorrere prede, quindi la nostra attivazione è quella animale di attacco o fuga. Se prevale la paura, possiamo andare incontro ad ansia e panico e, paradossalmente, paralizzarci. Può essere utile, allora, provare a riconoscere quella attivazione per quello che è, e non attribuirle un connotato o un giudizio.
Che fare, dunque, di questa attivazione? Una persona, intervistata da Jia Tolentino, dice che quando sente salire la preoccupazione per le tematiche ambientali, fa questo: «Inspiro profondamente, espiro e penso: cosa posso fare come individuo? Cosa possiamo fare come società?… Cosa è possibile fare con quello che ho di fronte a me oggi?». Questa strategia mette l’accento sulla possibilità e sull’attivarsi, invece che procurare un senso di impotenza. Come scrive Rebecca Solnit: «Gli allarmi sono preziosi, se accompagnati dall’idea che ci sia qualcosa da fare per impedire che le cose vadano male» e, poco oltre: «I fatti ci dicono che il problema è rappresentato dal settore dei combustibili fossili e da altri interessi di parte; che abbiamo le soluzioni, che sappiamo cosa fare e che gli ostacoli sono tutti politici; che quando lottiamo a volte vinciamo, e che questo è un momento decisivo per il nostro futuro».
Ben vengano dunque anche i piccoli gesti e le azioni individuali. Una storia popolare racconta di un incendio della foresta. Mentre tutti gli animali fuggono, un colibrì vola verso il fuoco, con il piccolo becco pieno di acqua. Deriso per l’inutilità del suo gesto, risponde di star facendo la sua parte. Il maggiore nemico dell’impegno a favore dell’ambiente, sottolinea Solnit, sta diventando il disfattismo, più che il negazionismo. Il disfattismo può essere legato a sentimenti di impotenza e disperazione, per questo fare qualcosa ci può connettere all’opposto a un senso di potenza e quindi di possibilità. Certo, è sicuramente faticoso e impegnativo. C’è un’oggettiva difficoltà a stare nell’incertezza e nella fatica di uno sforzo se la ricompensa o la buona riuscita non sono certe, e quindi il senso di autoefficacia e gratificazione è più sottile, e va ricercato dentro di noi.
«La speranza non è la stessa cosa della felicità, della fiducia o della pace interiore: è un impegno a cercare opportunità» scrive sempre Solnit. Impegno e fatica sono difficili e implicano un’assunzione di responsabilità. Ma mentre il senso di colpa può portare a una passività di umore depresso, il senso di responsabilità implica invece un invito all’azione, spesso evitato dai vari negazionismi che spostano responsabilità e obbligo all’azione verso qualcun altro, verso un altro da sé di più o meno definito.
Leslie Davenport, psicologa americana che si occupa di problematiche legate al clima, intervistata da Jia Tolentino, dice che la terapia «può incanalare queste emozioni in modo da incoraggiare seri costanti sforzi per combattere il cambiamento climatico», l’opposto di chi teme che un lavoro su di sé possa rendere adattati a un mondo nevrotico e che sta andando nella direzione sbagliata.
La cantante Anohni, da sempre attenta alle tematiche ambientali, in una sua recente canzone («It’s my fault» dal recente album «My back was a bridge for you to cross») esplora bene il senso di colpa nei confronti dell’ambiente: «It’s my fault / the way I broke the Earth» e conclude la canzone con un’espressione di rassegnazione: «Water dies / I love lies».
Sempre Davenport dice che «le strategie che provocano rimorso, senso di colpa e paura sono quelle che hanno meno probabilità di favorire il cambiamento», mentre quelle «che ispirano la speranza e l’azione sono le più efficaci».
Modificare il senso di colpa in responsabilità, come scrivevo, può aiutare a uscire da un immobilismo di carattere depressivo e portare alla voglia di fare qualcosa. E cosa può spingere all’azione? Nel suo ultimo e postumo libro intervista, James Hillman propone una sorta di innamoramento di fronte alla meraviglia della Terra: ispirato dalla visione della cupola del Mausoleo di Galla Placida a Ravenna, pensa alla visione dell’astronauta in grado di «vedere improvvisamente la Terra, nella sua bellezza, come cosmo. […] Il globo blu. Questo è ciò che deve essere protetto. È nostra madre, è la nostra sacra terra. […] Davanti a questa immagine si staglia la nostra più profonda istanza ambientale». È più profonda perché non parla un linguaggio sterile di economia e sostenibilità, ma trasmette «un’esperienza quasi religiosa della bellezza. Il mondo è così bello, dobbiamo lasciarlo fiorire. […] La bellezza è un’istanza molto più potente perché la bellezza evoca l’amore».
Se amiamo qualcuno o qualcosa lo proteggiamo e cerchiamo di fargli ogni bene e di evitargli ogni male, non lo “rifiutiamo”, gli “doniamo” i nostri scarti. E questo è anche il mio invito: uscire di casa, immergerci nella natura, assaporare la meraviglia e innamorarci della Terra.