Lorenzo svoltò nella piccola via che conduceva al Comune e parcheggiò in uno dei posti che stavano proprio sotto lo sguardo severo di Vittorio Emanuele Secondo. Riccardo scese per primo e si fermò ad osservare ciò che succedeva intorno all’auto accanto alla loro: il proprietario era stato avvicinato da un tale dai tratti orientali.
“Amico, mi dai qualcosa?” gli aveva chiesto.
L’altro lo guardò con diffidenza, abbassando poi lo sguardo sulla mano aperta dello straniero in attesa di qualcosa. Scosse la testa e mandò un secco no, mentre l’altro rimase immobile e fermo nel suo proposito per qualche istante. Alla fine, cedette e si allontanò con aria mesta.
Nel frattempo, Lorenzo era sceso dall’auto e aveva raggiunto il figlio, chiudendosi la giacca. Anche lui aveva visto la scena.
“Aspetta, Ricky” disse a bassa voce, estraendo il portafoglio e raggiungendo lo straniero.
Guardò l’uomo in viso, i suoi tratti induriti da una vita sulla strada e dal vivere di espedienti, e abbozzò un sorriso con le sopracciglia inarcate, quasi a significare che lo voleva accontentare, ma senza esser convinto che l’altro fosse in buona fede. Tenne in bella vista la moneta finché lo straniero aprì di nuovo la mano e ve la depose.
Alla fine, osservò l’uomo allontanarsi dopo aver biascicato uno stanco ringraziamento.
Riccardo disse che forse non bisognava incoraggiare le persone che gravitavano intorno alle auto parcheggiate chiedendo soldi. Non era il modo giusto di aiutarli.
“Perché gli hai dato i soldi?” chiese suo figlio a metà tra l’indispettito e l’incuriosito.
“L’ho fatto per Piccolessa” sentenziò suo padre.
Riccardo lo fissò con gli occhi sbarrati, sorpreso e disorientato.
Il padre rise, abbracciando la spalla del figlio e iniziando a camminare.
“Quando con i tuoi nonni venivo qua, da piccolo” cominciò a raccontare “proprio in questo piccolo parcheggio, ci imbattevamo sempre in uno strano personaggio.”
Disse che a lui sembrava vecchissimo, allora, ma che probabilmente non lo era così tanto – avrà avuto una sessantina d’anni. Era piccolo di statura e molto magro, al limite della sussistenza, aveva capelli grigi pettinati con la riga laterale e la pelle del viso scavata da profonde rughe. Ma, soprattutto teneva in mano un bastone: uno di quelli che forse oggi non esistono più, di legno scuro, lungo e con il manico a uncino arrotondato.
“Non sapevo il nome di quell’ometto” spiegò Lorenzo “né lo conoscevano i miei genitori.”
Tutti e tre sapevano solo che la città intera lo chiamava Piccolessa.
Riccardo allargò le mani come a dire cosa aspetti a dirmi perché?
“Mi scusi, mi dà una piccolessa?” recitò Lorenzo cambiando la voce e adattandola al ricordo che aveva dell’ometto.
“Cioè dei soldi?”
Lorenzo confermò, specificando che naturalmente lo chiedeva in bergamasco e che il dialetto non prevede la zeta. Figuriamoci doppia.
“La cosa più divertente” aggiunse “era vedere come agitava minacciosamente il bastone verso chi non sganciava qualcosa.”
Una volta lo vide percuotere la carrozzeria di una Fiat 128 e assistette al successivo litigio con il proprietario che alla fine cedette e versò l’obolo.
“Beh, sarà stato simpatico” commentò il figlio “ma non lo trovo giusto.”
“Non era per niente simpatico, se proprio vuoi saperlo. E ovviamente il suo comportamento era sbagliato.”
Ma faceva parte di quei tempi, apparteneva a una vecchia Bergamo ormai quasi sparita anche dalla memoria, totalmente sconosciuta a chi aveva meno di cinquant’anni. Come se non fosse mai esistita.
Invece Lorenzo l’aveva vista, quella Bergamo popolare e pittoresca.
“Era una città più provinciale” disse ancora “più tranquilla e perfino più povera.”
Ma era più poetica grazie al Piccolessa e ad altri personaggi folcloristici.
“Ce n’erano davvero altri così?” ridacchiò il ragazzo.
Il padre alzò le sopracciglia e fece una smorfia divertita.
Eccome, ragazzo mio.
“Forse il termine che hai usato è il più corretto.”
Personaggi folcloristici, ripeté Lorenzo a bassa voce e assaporando le due parole.
Non era giusto chiamarli macchiette, chiarì, perché il termine era vagamente denigratorio. Del resto, non si potevano nemmeno indicare come personaggi storici o personalità di spicco della società cittadina.
“Chi erano gli altri?” chiese suo figlio.
Lorenzo si guardò intorno, quasi cercando i ricordi disseminati qua e là per le strade della città.
“Andiamo da questa parte” disse, girando a sinistra nella galleria che conduceva in via Tiraboschi.
Riccardo obiettò che stavano andando in Piazza Pontida e il padre replicò che avrebbero fatto una leggera deviazione.
“Proprio qua” disse, fermandosi nella piccola via pedonale, quasi una piazzetta, che collegava Via XX Settembre a via Tiraboschi e Largo medaglie d’Oro “ha lavorato per almeno trent’anni una donna conosciuta da tutti”.
Pierina.
Suo figlio si fermò di fronte a lui con lo sguardo curioso.
“Una donna senza età, arrivata qui un giorno da chissà dove e rimasta con la sua attività per tutti gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta.”
Aveva un bancone che portava qui con una specie di Ape Piaggio, e un tendone come riparo dalle intemperie; sul bancone deponeva una bilancia, d’inverno le collane di biligocc - le castagne già lessate e affumicate - e le boröle che faceva scaldare nell’apposita pentola con i fori – non pretendo che tu conosca il termine bergamasco per le caldarroste; in estate vi metteva invece limoni, angurie e cocco, deponeva le casse sotto il bancone e si sedeva paziente su una bella sedia di vimini ad aspettare i clienti. Sempre numerosi. Era conosciuta da tutta la città e da buona parte dei bergamaschi di provincia che venivano in città a passeggiare in centro. Il suo viso tendeva al rosso a causa delle fiamme e delle scintille o forse anche per il fatto di stare sempre all’aperto, d’inverno e d’estate, con la neve e la canicola agostana. Forse anche la nicotina faceva la sua parte: oltre a vestire con palandrane e vestiti scuri e informi, il suo corredo prevedeva anche la perenne sigaretta sulle labbra.
Tornarono in via XX Settembre e Lorenzo si fermò davanti alla spaziosa galleria Bruni con la gelateria all’angolo di destra.
“Proprio in questo punto” indicò il marciapiedi “stava sempre il signor Cortesi, impeccabile nel suo grembiule bianco e corto e seduto su uno sgabello dall’aspetto scomodo ma che lui faceva sembrare un trono.
Aveva saputo leggendo sull’Eco di Bergamo, alla sua morte, che il Signor Cortesi si chiamava Giorgio e veniva da Melzo ma aveva scelto di fare il gelataio nella nostra città.
“Stava qua davanti alla sua macchina Technogel con tre leve.”
Una per la panna, una per il cioccolato e una per il doppio gusto. Stop: pochi gusti ma buonissimi e artigianali. E d’inverno tutti i bambini accorrevano qui per gustare il suo cono la panna montata arricchita da uno spruzzo di cannella.
“Era eccezionale, una delle cose più buone che abbia mai assaggiato.”
Noi bambini eravamo affascinati da questo gentile signore che tirava in basso la leva e faceva scendere il gelato cremoso e dandogli la forma dolcemente appuntita.
“Ricordo che la mamma, tua nonna, mi portava poi dentro l’UPIM a metà della galleria, uno dei primi grandi magazzini, per provare l’ebrezza della prima scala mobile di Bergamo.”
Il cono del signor Cortesi e il giro sulla scala mobile erano l’accesso al Paradiso.
Lorenzo annuì alla propria considerazione e si voltò in direzione della Chiesa.
“Lì ci stava sempre un fiorista, il signor Mazzoleni.”
La famiglia aveva e ha tuttora un negozio di fiori in via Broseta, ma hanno sempre avuto un avamposto qui, a metà di via XX Settembre, quasi di fronte alla chiesa di Santa Lucia – che non si chiama proprio così ma che tutti conoscono perché da decenni i bambini vi portano le letterine per Santa Lucia.
“Se ben ricordo il nome” disse Lorenzo “il signor Vittorio aveva sempre una sorta di carrettino con tre ruote e mi disse una volta che era quello originale del padre e che risaliva al 1947.”
Ripresero la camminata e giunsero in Piazza Pontida; entrarono in libreria per acquistare i libri che servivano a Riccardo. Lorenzo lo seguì mentre si addentrava tra gli scaffali.
“Dimmi qualche altro tipo interessante” disse il figlio.
Il padre confermò, sorridendo.
“Il Ciccio.”
Al secolo Egidio Borsatti – il vero nome Lorenzo l’aveva appreso alla sua morte sul giornale – che però aveva come territorio la Città Alta; camminava su e per la Corsarola – come? chiese Riccardo e l’altro chiarì che era il nomignolo di Corso Colleoni – e poi anche dalla funicolare a Colle Aperto. Camminava tantissimo, faceva chilometri su chilometri sempre con le mani incrociate dietro la schiena. Avanzava lentamente, quieto e senza mai parlare a nessuno. Poi, all’improvviso, gridava con voce stentorea uno dei suoi anatemi contro il governo, i politici oppure contro qualcuno in particolare. Più raramente se la prendeva con qualcuno nei dintorni. Ogni tanto buttava fuori anche quale espressione politically incorrect. Riccardo rise.
“Era matto?” chiese.
“Sicuramente soffriva di un disagio mentale, ma era tranquillo e solitario.”
Semplicemente ce l’aveva con il mondo e voleva farlo sapere.
“Poi c’era il Matteo Pitùr.”
Il suo vero nome era Matteo Gilardi. Lui gravitava su Piazza Dante, anche se abitava in Città Alta vicino alla Fara – così almeno mi pareva. Anche lui non era del tutto a posto e anche lui amava offrire un colorito turpiloquio a chi stava intorno e aveva voglia di ascoltarlo; a differenza del Ciccio, lui era socievole e chiacchierava volentieri. Era un tipo abbastanza giovane, alto e con gli occhiali.
“Il soprannome era ovviamente dovuto alla sua passione per la pittura.”
So che dipingeva quadri di tipo surrealista.
“Concludo parlandoti dell’unico ancora vivente, grazie al cielo, e che è un beniamino della città.”
Stefano Caglioni alias ol Cagliù.
“Oggi lui è diventato un pittore famoso. Si dice che sia il Ligabue di Bergamo.”
Da giovane era sempre in giro per il centro – meno frequentemente in Città Alta – passeggiando per conto suo, dipingendo, fumando o scroccando sigarette; ogni tanto inveiva contro qualcosa o qualcuno, oppure lo si poteva trovare intento a parlare di argomenti seri con un passante, un conoscente, un amico. Però, come artista, aveva sfondato solo negli anni Novanta.
“È famosissimo a Bergamo, ma ormai è conosciuto anche fuori provincia.”
Lorenzo aveva letto che la sua produzione ammontava a settantamila quadri, tutti venduti. In via San Bernardino c’era un suo murales – addirittura incorniciato – dedicato alla Madonna.
“Anni fa ha avuto qualche guaio di salute e ora vive in una struttura specializzata.”
Concluse parlando di una caratteristica molto particolare del pittore: si era fatto tatuare una corona di spine sulla fronte. Proprio come Gesù Cristo.
Il Cagliù non poteva passare inosservato, in tutti i sensi.
“Potrei andare avanti ancora con altri” disse il padre, assumendo un tono più sbrigativo “ma adesso dobbiamo pensare ai tuoi libri e poi ti devo accompagnare a Rugby.”
Riccardo alzò il pollice.
“Perché nessuno ci scrive un libro su tutto quello che mi hai raccontato?”
Lorenzo fece una smorfia dubbiosa.
“Forse c’è ma non lo so. Su internet si trovano un po’ di cose sulla Pierina e sul Cagliù, più rare le informazioni sugli altri.”
Però era vero che probabilmente non esisteva una vera raccolta.
Forse perché non si trattava di personaggi celebri, disse, né di campioni del mondo di ciclismo o papi e neppure celebri compitori. E nemmeno di calciatori.
“Erano persone comuni anche se vantavano alcune caratteristiche particolari.”
Pur essendo stati tipi bizzarri oppure divertenti o curiosi e comunque fuori dall’ordinario, restavano persone comuni e forse per questo erano più affascinanti.